La marea umana di Hong Kong non si arresta

È di ieri la dichiarazione di Carrie Lam, capo dell’esecutivo di Hong Kong, che a distanza di 6 giorni dall’inizio delle proteste ha ammesso le sue responsabilità affermando che «lo scontro e il conflitto su larga scala hanno avuto luogo a causa dell’inadeguatezza del lavoro del governo». Ciò non è stato sufficiente ad arrestare il malcontento generalizzato dei manifestanti, che fino a ieri notte hanno continuato ha sfilare in corteo in tutta la città occupando le arterie principali e paralizzando la circolazione. Gli organizzatori parlano di più di due milioni di persone, numero ancora non confermato dalle forze dell’ordine.

L’intervento del capo del governo, di cui si chiedono a gran voce le dimissioni, è seguito ad un’altra sua dichiarazione del giorno prima nella quale si annunciava l’imminente posticipazione a data da destinarsi della discussione del controverso disegno di legge sull’estradizione, ovvero della riforma da cui hanno avuto origine le proteste di questi ultimi giorni.

L’oggetto della contesa è la proposta di un accordo con il governo di Pechino che garantirebbe a quest’ultimo la prerogativa di estradare i soggetti accusati di reati gravi, come l’omicidio e lo stupro, per i quali la pena prevista sia pari o superiore a sette anni di reclusione. Il Partito Comunista Cinese ha espresso chiaramente la sua visione in un editoriale apparso lunedì scorso su China Daily, il quotidiano  di proprietà del governo: «Qualsiasi persona equanime considera l’emendamento un atto legislativo legittimo, sensato e ragionevole che rafforzerà lo stato di diritto di Hong Kong e garantirà la giustizia».

Il timore è che dietro questo atto, volto apparentemente a normalizzare le relazioni diplomatiche tra Pechino e Hong Kong, si nasconda la possibilità da parte del governo cinese di minacciare prigionieri politici e altri soggetti scomodi attraverso accuse pretestuose, in un contesto politico caratterizzato da non poche denunce di arresti arbitrari e da un clima generale di indifferenza rispetto al tema della protezione dei diritti umani, come dimostra il caso recente della comunità musulmana cinese degli uiguri.

Sebbene infatti Hong Kong sia una regione formalmente autonoma, in virtù del principio “una Cina, due sistemi” coniato alla fine degli anni settanta dall’ex presidente Deng Xiao Ping, la realtà del sistema politico è ben diversa. La Hong Kong Basic Law riconosce l’autonomia in tutte le materie ad eccezione della politica estera e della difesa ma garantisce a una minoranza ristretta di elettori il controllo di metà del potere legislativo e il potere di nominare il capo del governo. Questa stessa minoranza è strettamente legata al Partito Comunista Cinese.

I limiti della democrazia di Hong Kong sono all’origine della prima grande ondata di proteste del 2014,  quel “movimento degli ombrelli” che per tre mesi ha sfidato il governo chiedendo a gran voce l’istituzione di un vero suffragio universale e coinvolgendo un’ampia fascia di giovani e giovanissimi fino a quel momento estranei a qualsiasi esperienza politica.

Gli stessi che oggi, a distanza di cinque anni, sono tornati nelle strade e nelle piazze, sfidando la censura e la repressione da parte delle forze dell’ordine. E che nonostante tutto non sembrano intenzionati a fermarsi, nemmeno di fronte all’annuncio della scarcerazione del ventiduenne Joshua Wong, il leader studentesco diventato il simbolo delle proteste di cinque anni fa. L’obiettivo è duplice: le dimissioni del capo dell’esecutivo Carrie Lam e il ritiro della proposta di legge sulle estradizioni. Al momento il bilancio è di un morto, 81 feriti e 11 arresti.


Foto in copertina da The New York Times

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