Gli infiniti passi di Peppino

Nel 1978, a Cinisi, trenta chilometri da Palermo. Nel 1978, Casa Impastato, a cento passi dalla casa del boss Gaetano Badalamenti. Nel 1978, così come nel 2018, a distanza di quarant’anni, sono pochi metri. Impossibile non vedere, non sentire, impossibile stare zitti nel 2018, non nel 1978. Qualcuno parla alla radio, si chiama Peppino Impastato, ha trentanni e suo padre è un mafioso. Peppino conosce i tanti volti della mafia, li vede ogni giorno per strada, alla bottega, ai bordi della piazza, incontra i loro volti senza chinare lo sguardo. Il suo è un caso anomalo: la famiglia è di solito la cellula più impenetrabile della struttura mafiosa. Era anche un giornalista – pur non essendo iscritto all’albo – e denunciava i traffici illegali della mafia di Cinisi e dei suoi politici.

Sbeffeggiava i suoi protagonisti alla radio, tra una canzone e un’altra, li ridicolizzava affibbiando loro ironici nomignoli.  Gaetano Badalamenti è furioso. Avvisa il padre di Peppino, «O la smette o lo ammazziamo». Quest’ultimo va negli Stati uniti per chiedere la protezione del figlio, ma al suo ritorno è investito da una macchina e perde la vita. Peppino continua la sua attività alla radio.

Il 9 maggio del 1978 c’è silenzio e la notte è buia come sempre. Stavolta un po’ di più. Peppino Impastato è colpito alla testa con un masso, è legato, insieme a del tritolo, alle rotaie che collegano Trapani e Palermo, le stesse che dividono il comune di Cinisi da quello di Terrasini, dove aveva sede la radio che Peppino aveva fondato con altri amici coraggiosi, Radio Aut, una radio libera e autofinanziata che trasmetteva Onda Pazza, la trasmissione satirica che aveva ribattezzato Gaetano Badalamenti, appunto, “Tano Seduto” e Cinisi “Mafiopoli”. Peppino era anche un attivista: partecipava con vigore e convinzione alle proteste dei contadini espropriati per la costruzione della terza pista dell’Aeroporto di Punta Raisi, a poca distanza da Cinisi.

Si schierava dalla parte dei disoccupati, dei più deboli. Decide di rafforzare la sua missione candidandosi alle elezioni provinciali. La mattina del 9 maggio 1978 avrebbe dovuto tenere il comizio che chiudeva la sua campagna elettorale, ma quel giorno i giornali locali parlavano di altro.

«Peppino si è suicidato». Anzi no, «Peppino è un terrorista – incapace peraltro – voleva far saltare per aria un treno, un attentato terroristico, ma è finito per saltare in aria lui».

La notizia è adombrata dal ritrovamento del corpo, a Roma, del segretario di Democrazia Cristiana, Aldo Moro. Al funerale non andranno neanche i vicini di casa, ma si presenterà una folla di giovani accorsi spontaneamente da tutta la Sicilia, non credendo alla storia del suicidio e dell’attentato, ma riconoscendo in Gaetano Badalamenti e la sua cosca, i mandanti e gli esecutori materiali dell’omicidio. Soltanto nel 2002 il capomafia sarà condannato per l’omicidio di Peppino.

Peppino conosceva i rischi della sua attività, perché conosceva la struttura, gli strumenti e i metodi di Cosa Nostra. Probabilmente sapeva anche che quella sarebbe stata la sua fine, eppure la paura di morire non aveva superato la paura che tutto intorno a lui morisse. 

Il giovane Impastato è stato ucciso perché oltre a sapere che soli cento passi lo dividevano da Cosa Nostra, lo aveva detto pure ad alta voce. Era siciliano ed era figlio di un mafioso. Era giovane e non era potente. Non era neanche un giudice, non aveva titoli, non era neanche ricco. Indossava i jeans e suonava una chitarra. Scriveva poesie e di giorno riversava il suo sarcasmo contro i mafiosi dagli altoparlanti della radio. Però, faceva paura ai mafiosi proprio perché dimostrava di non aver paura di loro. Li derideva e li ridicolizzava, appioppava loro nomignoli imbarazzanti, li rimpiccioliva come molliche senza usare le mani. 

Forse Badalamenti aveva capito quello che Peppino stava svegliando, una coscienza collettiva in grado di erodere e sgretolare l’efficacia di certi dispositivi mafiosi. Qualcosa che andava oltre l’applicazione della legge e riguardava una resistenza spontanea e pazza. Un’Onda Pazza.

La mafia è sciocca. Uccide gli uomini ma non ha alcuna arma contro le idee. A un uomo puoi sparare, puoi anche fargli male e ucciderlo. Non puoi sparare a un’idea. Non quando quell’idea non appartiene più a un solo uomo, ma a cento, mille, un milione.

Anche se Peppino è stato ucciso, adesso grida più forte. Cinisi era città di Gaetano Badalamenti, a quei tempi; è adesso la città di Peppino Impastato e di quelli che come lui non hanno trattenuto la voce. Cento passi dividevano Peppino dalla banalità del male, quando la notte era così buia da togliere il fiato, che se non fosse morto avrebbe comunque creduto di esserlo. Quando non era semplice dire che la mafia esisteva e che uccideva.

Ogni 9 Maggio, una lunga coda di giovani e di adulti attraversa i binari in cui fu ucciso Peppino. Bandiere colorate, cori, canzoni, allegria, fili di commozione e di slogan, non si tratta più di contare i passi che ci dividono, ma di percorrere insieme nuove strade che qualcuno di molto coraggioso ci ha donato.

Si tratta di raccogliere il coraggio, di attraversare e travolgere l’indifferenza e il silenzio. Il corteo arriva davanti alla casa di Peppino, adesso sede di Casa memoria Felicia e Peppino Impastato. La sua stanza è ancora lì, così come l’aveva lasciata lui prima di morire. I suoi libri, i suoi fogli sparpagliati, la chitarra, le sue foto. Ti chiedi cosa sia quella strana sensazione di averlo lì; tra tutti quei visi sconosciuti e accaldati, ti chiedi in quale sorriso sia finito. Dal balcone di pietra si vede perfettamente quello di casa Badalamenti. Cemento. A volte è un passo, a volte sono venti, o più di cento. Non puoi mai saperlo veramente. Devi comunque camminare. Grazie Peppino.

Di Alessandra Callea


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