La Flat Tax, un probabile fallimento?

Di Francesco Paolo Marco Leti – Negli ultimi mesi la proposta partita dalla coalizione centrodestra riguardo la sostituzione delle aliquote IRPEF con un’unica aliquota, nella doppia versione 15% o 23%, ha riscosso parecchio scalpore. Una diminuzione dell’imposizione fiscale solletica molto le fantasie dell’elettore italiano e, spesso, porta alla vittoria delle elezioni.

La flat tax ha un padre glorioso in economia: Milton Friedman, il padre del “monetarismo”, che la ideò nel lontano 1956. L’idea si è mantenuta nelle cavità carsiche del pensiero economico ed è riaffiorata in diverse occasioni durante le varie campagne elettorali. Di recente è stata rilanciata durante la presidenza di George W. Bush come valido sostituto per l’ambiziosa riforma fiscale proposta dal presidente, ma non è stata presa in considerazione.

Una sorta di flat tax è comunemente usata per la tassazione delle persone giuridiche in quasi tutti i paesi del mondo e l’Italia non costituisce un’eccezione con la sua aliquota IRES (Imposta sul Reddito delle Società), unica a prescindere dagli utili creati. Diverso è il successo che questa misura ha avuto nel campo della persona fisica: soltanto un gruppo di paesi ha introdotto una tassazione improntata a principi di flat tax, fra questi le repubbliche baltiche, la Russia, l’Ucraina, buona parte dei paradisi fiscali e una serie di paesi che, dopo averla introdotta, hanno preferito abbandonarla (Islanda e Slovacchia su tutti). Un’importante differenza fra tutti questi paesi è l’aliquota introdotta: nelle repubbliche baltiche essa oscilla fra il 25% e il 33%, in Russia e Ucraina è solo il 13%, in Slovacchia era fissata al 19%.

I sostenitori di questo modello sottolineano come, a seguito dell’introduzione della flat tax, si sia sviluppata un’intensa crescita nei paesi che l’hanno introdotta e portano come esempi lo sviluppo di Russia e repubbliche baltiche. Un altro punto a favore dovrebbe essere l’aumento del gettito fiscale dovuto alla drastica riduzione dell’evasione fiscale e all’aumento della fedeltà fiscale.

Per quel che concerne il primo punto, la letteratura economica non è concorde e diversi autori hanno rilevato come non vi siano nessi di causalità diretta fra l’introduzione della flat tax e la crescita economica o che quantomeno la flat tax non sia determinante su quest’ultima.

Quello dell’aumento del gettito fiscale, invece, è un totale fallimento, essendo stato dimostrato dai dati empirici come l’introduzione della riforma fiscale abbia comportato una diminuzione del gettito e non un suo aumento, con l’eccezione della Russia. Quello russo, bisogna precisare però, è un caso particolare, fondato su un’alta infedeltà fiscale (che è effettivamente diminuita dopo l’introduzione della flat tax) e nel quale l’aumento di gettito è probabilmente causato dall’incremento delle entrate delle materie prime più che dall’introduzione della riforma fiscale. Al contrario un esempio evidente, di come questa possa essere una politica fallimentare, è dato dalla Slovacchia, che ha dovuto abbandonare il sistema per rientrare dal deficit pubblico creato e che, con l’introduzione di nuove aliquote, ha rimesso i conti del paese in carreggiata.

Abbandonando il campo della mera economia dei numeri, si porrebbe anche un tema di giustizia sociale. Una aliquota al 15% o al 23% creerebbe una distorsione nella progressività fiscale a tutto vantaggio dei ceti abbienti del nostro paese. Questa riforma s’innesterebbe in una situazione nella quale le diseguaglianze si stanno intensificando, aggravando ulteriormente il problema. Dal punto di vista dei consumi, invece, è evidente come un alleggerimento fiscale nei confronti dei più ricchi non ne rappresenti un volano: difficile che chi abbia già quattro ville possa desiderare di costruirne una quinta. Al contrario, i ceti meno abbienti che avrebbero necessità di spendere in consumi, non avrebbero quasi nessun vantaggio da questa riforma, eccezion fatta per l’allargamento della no tax area.

Introdurre un sistema del genere nel nostro paese sarebbe un’impresa a dir poco ardua e probabilmente votata al fallimento. Questo perché, oltre a inserire un’aliquota tale da evitare di creare un deficit mostruoso, sarebbe necessario inserire una serie di deduzioni e detrazioni tali da creare un sistema di progressività all’interno del nuovo modello, per evitare che essa confligga con l’articolo 53 della Costituzione, che recita: «Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività».

Tutto ciò costituirebbe un’operazione molto difficile da realizzare e probabilmente non alla portata della nostra attuale classe dirigente. Inoltre, dal punto di vista dei conti pubblici, servirebbe una drastica riduzione della spesa che, come abbiamo avuto modo di vedere nel corso delle recenti legislature, è difficilmente comprimibile. Un’ulteriore compressione della spesa, accompagnata dagli effetti distorsivi dell’aliquota, non farebbe altro, quindi, che aggravare le condizioni dei ceti più poveri del paese e porterebbe, a cascata, una compressione dei consumi. Infine, sulla crescita del gettito dovuto alla maggiore fedeltà fiscale, permettete a chi scrive di nutrire qualche dubbio sull’efficacia di tale manovra. Al riguardo Giulio Andreotti ebbe a dire in modo perfetto che «l’umiltà è una virtù stupenda, il guaio è che molti italiani la esercitano nella dichiarazione dei redditi».


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