Donald Trump, l’eccezione che conferma la regola del malcontento popolare
Di Mario Montalbano – “Not my president, not my president”, recitava uno dei tanti cartelli sventolanti nelle manifestazioni avvenute in questi giorni nelle diverse città degli Stati Uniti d’America. È la reazione rabbiosa e delusa di chi sembra non essersi risvegliata da un incubo. A far le vesti di uomo nero Donald Trump, la cui vittoria inaspettata nell’election day pare abbia destabilizzato il mondo intero e ancora di più il contesto politico americano.
In tanti hanno sollevato dubbi e perplessità sulla capacità del tycoon di rappresentare e unire l’intero elettorato statunitense. Non solo all’esterno, ma soprattutto tra le proprie mura. Le sue recenti parole dal tono istituzionale fanno da contraltare all’immagine che lo stesso Trump si è costruito nel corso di tutta la campagna elettorale. Ossia, leader di un movimento ampio che trova le sue basi nell’America bianca, vecchia e tradizionalista, ma anche giovane e precaria. Non solo naturalmente. Ma è chiaro come la gente di Trump abbia soprattutto queste precise caratteristiche.
Il nuovo presidente ha vinto cavalcando quel malessere che è covato negli anni nelle periferie e nelle cittadine isolate. Quelle che silenziosamente erano il motore economico e industriale, e che adesso non ci stanno a crollare sotto i colpi degli effetti della globalizzazione. In una parola sola: malcontento. Questo ha trascinato Trump alla vittoria. O meglio questo, Trump, è riuscito a recepire e sfruttare. Certo, c’è chi solleva una questione legittima. Può un miliardario, un affarista con più di una magagna legale, rappresentare chi ha pagato le conseguenze delle bolle finanziarie e delle crisi economiche? Domanda a cui forse non è semplice rispondere. Sta di fatto, però, che The Donald è diventato un punto di riferimento per questa porzione di società civile americana.
Non è errato parlare dell’arrivo dell’antipolitica in America. La vittoria di Trump non è tanto diversa dalle affermazioni che hanno travolto negli ultimi anni l’Europa. Non vi è competizione elettorale nel vecchio continente, ormai, qualsiasi essa sia, che non debba affrontare il pericolo dei movimenti e dei partiti antisistema. Ne è stata vittima l’Italia nel 2012 con l’exploit del Movimento Cinque Stelle. È avvenuto in Spagna con Podemos. Ed è accaduto in contesti elettorali locali e regionali in Francia e Germania con Marine Le Pen e l’Afd. E nel prossimo futuro chissà quante altre.
C’è un filo che lega quanto avvenuto negli Stati Uniti d’America e quanto accade da anni nel nostro continente. Ed è caratterizzato dalle stesse situazioni, dalle stesse problematiche, economiche e sociali, che finiscono per essere capi d’accusa per il mondo politico. Trump, d’altronde, non era un suo esponente. Ma dall’alto del suo essere profano, dissacrante a volte, ha messo in discussione alcuni punti fermi della politica americana, ha attirato le attenzioni di chi era stanco dei vari Clinton e Bush. La sua vittoria è duplice. Non solo ai danni dei democratici, ma anche verso i repubblicani, mai a suo fianco, e per certi versi suoi primi nemici. Per questo il successo di Trump è un segnale in senso antipolitico. Non un caso, piuttosto l’eccezione che conferma la regola.
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