Renzi comodo in TV, Travaglio e Zagrebelsky un po’ meno

Nel giro di questi ultimi dieci giorni sono stati trasmessi due confronti televisivi, per la verità due sfide allo stesso interlocutore: prima il duello che vedeva il direttore de Il Fatto Quotidiano Marco Travaglio confrontarsi con Matteo Renzi, e poi quello dal taglio decisamente diverso tra il giurista ed ex giudice della Corte Costituzionale Gustavo Zagrebelsky e il presidente del Consiglio.

Fondamentalmente abbiamo assistito alla difesa di due istanze molto diverse, sostenute da esponenti autorevoli e pienamente coinvolti, chi per giornalismo chi per ruolo. Travaglio, direttore di un giornale dichiaratamente simpatizzante per il M5s, non ha risparmiato dati e battute come è nel suo stile, scontrandosi a muso duro con il Presidente del Consiglio, il quale ha negato le informazioni in possesso del giornalista: i dati ISTAT in discesa sull’occupazione, il “doping” – come lo ha definito il giornalista – immesso per incentivare le imprese all’investimento e i risultati deludenti del Jobs Act in questi due anni di applicazione.

Zagrebelsky, entrando nei tecnicismi e facendo molta attenzione al lessico utilizzato nelle proposte per il referendum del 4 dicembre per il quale è uno dei più autorevoli sostenitori del No, ha dato vita a una discussione dai toni senza dubbio meno accesi ma decisamente impari con Renzi, per scelte e per indirizzo: il giurista bacchettava il presidente che, da uomo politico, faceva sfoggio di doti comunicative dirette oltre lo studio televisivo di La7.

La stoccata vincente non è arrivata in nessuno dei due confronti televisivi, in primo luogo per la buona difesa del presidente del Consiglio, molto preparato sugli avversari e sulle dichiarazioni rilasciate a diverse testate giornalistiche, anche scavando in archivi risalenti a qualche anno fa; in secondo luogo perché anche le domande più scomode e le osservazioni a proposito del tema scottante del “senaticchio” – come lo ha chiamato Zagrebelsky – non hanno lasciato sbigottito il principale firmatario della riforma costituzionale, abile dribblatore.

Durante l’incontro tra Renzi e Travaglio, la tematica Europa non è mancata, e così anche la politica sovranazionale. In fatto di flessibilità, le parole del presidente suonano (inevitabilmente) rassicuranti: “C’è da dire una cosa all’Unione europea – se pensate di prendere in giro l’Italia sull’immigrazione e il terremoto, avete sbagliato destinatario. – Tutto ciò che serve per risolvere questi problemi resta fuori dal patto di stabilità, e su questa posizione, che ho illustrato al presidente della Commissione europea Juncker , penso ci sia il consenso dell’Unione europea. Per noi questo punto è fondamentale”. Renzi viene subito freddato dalla conduttrice di Otto e mezzo Lilli Gruber che cita una dichiarazione di Juncker su una flessibilità già abbastanza usufruita dall’Italia che “suona come un avvertimento”. E la dose subito rincarata dal direttore de Il Fatto che lamenta un’inspiegabile mancata crescita proprio a seguire di flessibilità, delle “congiunzioni astrali europee favorevoli”, del “cannone di Draghi” e del petrolio basso. Sul referendum sono stati accesissimi i toni e la “personalizzazione” delle affermazioni, una configurazione classica per il sagace Travaglio incontenibile dalla conduttrice e meno comoda per Matteo Renzi, più incline all’attesa e alla risposta ordinata. Uno scontro che ha visto vincitori l’imprecisione dei dati lamentata da una parte all’altra, e le battutine sarcastiche che i due protagonisti non hanno mai risparmiato in qualsiasi incontro pubblico – oltre che da una prima pagina all’altra.

Presenziato dal moderatore Mentana, direttore del TG La7, ben altra cosa è stato il duello tra Zagrebelsky e Renzi. Un esperto giurista e il politico al vertice del governo: due grandi provenienze differenti e destinate a scontrarsi, abituati come siamo all’amaro testa a testa tra politici e magistrati. Da subito occupa la scena il tema dei parrucconi, termine infelice utilizzato da qualche anno dalla stampa simpatizzante il Partito Democratico – dai tempi dell’appello Libertà e Giustizia di Zagrebelsky e Rodotà – e ancora poco gradito dal costituzionalista. Ma l’analisi lessicale da parte di quello che Renzi continua insistentemente a chiamare professore, alludendo a un esame universitario piuttosto che a un confronto verbale, risulta dettagliata, precisa e decisamente “per pochi eletti” telespettatori. Cauto e misurato l’ex membro della Corte Costituzionale, molto serio e meno sorridente del precedente incontro Matteo Renzi, il quale ha intravisto in questo scontro con un veneratissimo giurista – l’allievo ricorda spesso al maestro che ha “studiato sui suoi libri” – una battaglia importante per rispondere ancora una volta, in maniera decisa, alle eminenti personalità che difendono il No. I punti deboli della critica negativa alla riforma costituzionale e ai suoi strascichi sulla riforma elettorale, anche se presenti, non hanno ricevuto forza e spessore: primo tra tutti, il lavoro dei futuri senatori, diviso tra Comune e Capitale; la complicazione del processo legislativo piuttosto che la semplificazione; la votazione del presidente della Repubblica affidata, per sfinimento, a un numero anche irrisorio di presenti in assemblea; lo Statuto delle opposizioni, un documento che verrebbe approvato dalla maggioranza alla Camera dei Deputati, ponendolo in contraddizione col suo stesso significato. Uno dei punti principali sostenuti dal costituzionalista è il clima non adatto al lavoro su una riforma così importante (come questa che modifica la Costituzione), che riguarda tutti e tutte le forze politiche: in un ambiente così poco coeso è pericoloso o scorretto lavorare alla modifica di un testo tanto importante come la nostra Carta, guida della Repubblica. E’ stato sottolineato più volte anche l’aspetto politico della lentezza legislativa, una conseguenza non dovuta al procedimento in sé ma alla mancanza di accordo e volontà da parte dei deputati stessi. E’ chiaro anche come, Renzi, abbia espresso le motivazioni principali che lo spingono a portare avanti con orgoglio questo progetto: la dimostrazione di intraprendenza – cosa che ha spiazzato Forza Italia, rimasta “in aggiornamento” – e della politica del fare, la maggiore stabilità dei governi che verranno e una verosimile cancellazione del ping-pong tra Camera e Senato. Il dibattito partito come l’incontro tra “chi parla per slogan e chi parla con argomenti” sembra aver sofferto la mancanza di quella frizzantezza espressiva che avrebbe reso proprio quegli argomenti del No più appetibili rispetto all’efficacia renziana.

Daniele Monteleone