La nuova strategia di Erdogan in Siria: strizzare l’occhio a Putin contro i Curdi

Sono trascorsi cinque anni dall’inizio del conflitto siriano ed in questi anni la Turchia del Presidente Erdogan ha mantenuto un atteggiamento ambiguo nei confronti del Califfato.

Le ragioni probabilmente risiedono nella volontà di estendere la propria influenza al cuore del Medio Oriente, creando una sorta di sultanato sunnita, su parte della Siria e dell’Iraq. A tale scopo anche l’Isis aveva una funzionalità poiché l’obiettivo era la caduta di Bashar al Assad, il cui regime, sciita, era appoggiato dalla principale potenza nemica del fronte sunnita, l’Iran e dalla Russia di Putin.

La Turchia, dunque, ha chiuso un occhio sul passaggio dal proprio territorio di centinaia di volontari stranieri che andavano ad ingrossare le fila dei combattenti del Califfato – tanto da ribattezzarla “l’autostrada della jihad” – e ha permesso il commercio, sul mercato nero, del petrolio proveniente dai pozzi controllati dall’Isis.

Che la caduta di Assad sarebbe stata un’impresa difficile appariva evidente già nel 2013 quando, nonostante il regime avesse oltrepassato la cosiddetta red line delle armi chimiche fissata da Washington, gli Usa e la Francia rinunciarono a bombardare Damasco. Da allora, Assad resiste ma, contemporaneamente, Daesh continua la sua ascesa, ponendo sotto il suo controllo 68mila chilometri quadrati tra Siria e Iraq.

L’arretramento oggi sul terreno dei miliziani di Al Bagdadi, però, non è certo tra i meriti di quel fronte sunnita, tra i quali spiccano l’Arabia Saudita ed il Qatar, e di cui la Turchia voleva essere portabandiera né tantomeno dell’Occidente tutto, dagli Stati Uniti all’Europa. Se sul campo l’Isis ha avuto importanti sconfitte lo si deve soprattutto ai curdi, ai russi e agli sciiti. E siccome in Siria il mescolarsi delle carte avviene con estrema facilità, oggi rispetto alla situazione di qualche mese fa il gioco delle alleanze ha portato ad un nuovo quadro.

Uno dei punti di svolta è il fallito golpe di luglio in Turchia dal quale Erdogan è uscito rafforzato. Le sue successive epurazioni lo hanno portato ben lontano da quegli standard di democrazia che l’Europa prova – un po’ svogliatamente – a ricordare. Con gli Stati Uniti le cose non vanno di certo meglio, la questione dell’estradizione dell’arcinemico Fetullah Gulen, che gli americani non vogliono concedere, pesa come un macigno.

Così, messi da parte i sogni neo-espansionistici, Erdogan ha capito che era necessario cambiare strategia. Da avamposto dell’Occidente, con ben 24 basi NATO, a possibile alleato di Russia, Iran ed Hezbollah. È dei primi di agosto il riavvicinamento con Putin la cui posta in gioco è molto chiara: Erdogan manda giù la presenza di Assad al potere, almeno per un periodo transitorio, in compenso la Russia – che senza alcun dubbio farà la parte del leone nei futuri assetti siriani – non sponsorizzerà più la presenza dei curdi al tavolo dei negoziati ONU.

Perché la vera questione per la Turchia è che non si formi ai suoi confini uno stato curdo indipendente che possa rappresentare un polo di attrazione per i curdi turchi e che inasprisca il conflitto con il PKK. I curdi di Rojava, fondamentali nella lotta all’Isis ma troppo spesso barattati da tutte le grandi potenze per alleanze prioritarie, rimangono oggi al centro dei futuri assetti siriani.

Antinea Pasta


 

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