Palermo ai tempi del colera

 

Nonostante l’espressione «ai tempi del» sia stata recentemente abusata da qualsivoglia testata giornalistica o programma televisivo per indicare eventi attinenti questo “periodo malato” dominato dall’emergenza coronavirus, stavolta, in questo caso, il riferimento letterario all’opera di Gabriel García Márquez, El amor en los tiempos del cólera, è certamente più azzeccato. D’altronde Palermo conobbe il dramma del colera, malattia che iniziò a mietere vittime dalla prima metà del XIX secolo e che sconvolse mezzo pianeta in ben sei diverse pandemie nel corso del secolo. Le “ondate”, tipiche di diverse epidemie e pandemie, conoscevano diverse e più pericolose intensità in base alle guerre, al movimento delle truppe, alle tratte commerciali per terra e per mare e in questa maniera non si arrestavano quasi mai del tutto.

Diffusasi come patologia endemica dell’area indiana, il colera – chiamato anche “morbo asiatico” – è una gravissima infezione batterica che colpisce l’intestino e che ha luogo soprattutto in condizioni di scarsissima igiene e pulizia dell’ambiente. Ancora oggi è diffuso nel mondo e provoca migliaia di vittime ogni anno nei paesi che patiscono ancora condizioni di estrema povertà e un perseverante disagio sociosanitario: in poche parole, il colera uccide ancora in quelle zone del pianeta che sono ancora colpevolmente abbandonate.

Il XIX secolo ha conosciuto più episodi epidemici aggressivi capaci di causare milioni di morti in tutto il continente europeo. Il colera avanzò lentamente, anno dopo anno, attraverso il Medio Oriente, la Russia, l’Europa dell’Est. Arrivò lungo le coste del Mediterraneo e dunque in Italia nel 1836, colpendo per prime le città prossime ai confini francesi. Dalla Francia alla Liguria, e quindi Piemonte, Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna, Toscana, fino in Campania e poi Sicilia, quest’ultima raggiunta nel 1837 dove «nulla era a temere».

A Palermo il cordone sanitario che veniva garantito da diversi anni (dal 1831) e che fu disposto dall’allora pretore Pietro Lanza Principe di Scordia, fu soppresso nel 1835 con l’illusione che il pericolo colera – imperversante però in Europa – fosse scampato. Le speranze furono disattese: il colera aveva raggiunto la Pianura Padana. Il Primo di aprile del 1837 però, con un’incauta ordinanza del Magistero supremo di sanità, furono disimpegnati gli addetti – che erano stati attivati in via precauzionale – alla custodia dei lazzaretti, alla pulizia delle pozze d’acqua e al controllo della quarantena. Non era un pesce d’aprile, era un errore, un peccato di presunzioneche sarebbe stato pagato carissimo.

A maggio venne ripristinato il cordone sanitario e quindi la chiusura del porto di Palermo. E il controllo sulle imbarcazioni già attraccate “in quarantena” come procedeva? Male. Morivano a bordo capitani e marinai, e il colera aveva già conquistato l’area portuale. Il 7 giugno due guardie sanitarie – due marinai – morirono di colera, «i loro nomi, Mancini e Tagliavia, sono tramandati alla posterità come i primi fattori di una grande sventura sociale» (Palermo e le sue grandi epidemie – Stabilimento tipografico Virzì, 1894). L’ispezione medica della dissezione dei cadaveri era una pietra tombale pronta a cadere sulla testa di migliaia di palermitani. Solo in quel momento, col sopraggiungere di altre morti nel quartiere della Kalsa, ci si accorse che alcuni soggetti sani con cui avevano avuto contatti i due addetti portuali deceduti, erano ormai sfuggiti all’isolamento. «Il male era penetrato».

«Un marinaio, fugato dalla Kalsa il 7, andò alla Tonnarazza ove morì il 12, curato dal Dr. Lorenzo Angelieri, che dissezionò il cadavere al Camposanto e ne fu colpito il 14, morendo il 15 nella sua abitazione in via S. Basilio, nel quartiere Castellammare. […] Il giorno 16 muore l’ostessa di S. Giacomo La Marina che avea rapporto con marinai, e nello stesso giorno un altro uomo di mare è trovato morto a S. Erasmo. Il 17 è attaccata la madre della serva del Dr. Angelieri, e indi le zie ed altri parenti dell’Angelieri, e tutti periscono». La malattia, sino ad allora dissimulata, si proclama; l’epidemia avanza inesorabile e rapida «anelante vittime a migliaia».

Nel testo di Francesco Maggiore Perni, Palermo e le sue grandi epidemie, si racconta che «nella està del 1837 [il colera, ndr.] invadeva la Sicilia, consumandovi stragi inaudite, specialmente in Palermo, ove perivano oltre 24.000 abitanti sopra una popolazione che di poco sorpassava i 150.000». Nell’intera Regione, negli anni della prima epidemia di colera, morirono circa 70 mila persone: è evidente come quella che si consumò nel palermitano fu la situazione più critica nell’Isola.

I fuggitivi portarono il morbo nelle campagne, da Monreale a Misilmeri, da Ficarazzi a Bagheria. I provvedimenti non furono efficaci nell’evitare la morte di così tanti cittadini. L’epidemia era già giunta in città quando furono disposti gli ospedali adibiti ad accogliere i malati colerici; i senzatetto che non potevano curarsi al coperto sarebbero stati portati in ricoveri ad hoc; le case delle vittime sarebbero state chiuse e poste – come diremmo oggi – “sotto sequestro” per motivi sanitari. Fu anche richiesto a ogni convento e monastero di adibire un’area per un’adeguata infermeria. Tutte ottime decisioni, certo, ma prese troppo tardi. Luglio 1837 fu l’apice del disastro, morirono oltre ventimila persone in poche settimane: «Tanto eccidio in soli 10 giorni non erasi mai letto; non vi fu individuo che non fosse colpito del male, non famiglia che non avesse i suoi morti; e le vittime per più di otto dì rasentarono i 2000 per giorno. I cittadini cadevano come fulminati». Finalmente, l’11 ottobre, si celebrò la tanto attesa messa che decretava la conclusione delle “ostilità”: il colera era sconfitto, ma più sconfitta era una comunità, quella palermitana, letteralmente dilaniata da un male che non conosce distinzioni di sesso, età e costituzione fisica.

Il veleno della paura e dell’odio però miete il maggior numero di vittime. In alcune città siciliane come Catania, Messina e Siracusa si era rafforzata la credenza che il colera fosse «un veleno propinato dal governo». Quest’idea era così potente che i movimenti di protesta, in quegli anni carichi di tensioni sociali – siamo a pochi anni dall’Unità d’Italia –, si tradussero in avvenimenti di aperta rivoluzione. L’occupazione di sedi istituzionali e il controllo militare dei rivoltosi portò a efferati eccidi contro cittadini innocenti, creduti anch’essi avvelenatori. Lo scoppio del colera fu anzi alimentato dalle traversate di soldati ribelli che, rompendo i cordoni sanitari, e sotto il pretesto di ristabilire l’ordine sociale, andavano “in missione” presso altre comunità in giro per l’Isola infettando comunità dopo comunità.

Le altre ondate, meno poderose ma altrettanto tragiche, sfiancarono Palermo e la Sicilia ancora per molti anni. Altre truppe, quelle austriache, diffusero nuovamente il colera nel Nord Italia all’indomani dei moti quarantottini. Nel 1854 la seconda ondata – che stavolta colpì duramente la città di Messina, scampata però all’epidemia del 1837 – uccise 27 mila persone in tutta la Sicilia. Fra il 1867 e il 1868si registrò una memorabile mortalità da colera: si calcola che in soli due anni la terza ondata di colera uccise circa 150 mila persone in tutto il Regno “lasciando” la Penisola solamente nel gennaio del 1868, e lasciando anche una scia di 60 mila morti nella sola Sicilia (di cui circa 8 mila a Palermo). A quasi vent’anni di distanza, in una nuova ondata di colera fra il 1885 e il 1886, altre 3 mila persone dovettero perdere la vita a Palermo, a fronte delle 5 mila nazionali dello stesso periodo. Fu questa l’ultima tragedia sanitaria palermitana, almeno per quel secolo.