Vittimizzazione secondaria, la Corte Europea dei diritti umani condanna l’Italia

La Corte d’Appello di Firenze violò i diritti e gli interessi di una presunta vittima di stupro con una sentenza carica di stereotipi e pregiudizi sessisti. 


Risale al 25 maggio scorso la pubblicazione della sentenza J.L v. Italy con cui la Corte europea dei diritti umani ha condannato l’Italia al risarcimento di una somma di denaro pari a 12 mila euro per la sentenza emessa dalla Corte d’Appello nella vicenda dello stupro avvenuto a Firenze nel 2008 e definito dai giornali come lo stupro della Fortezza da Basso.

La ragione della condanna risiederebbe nel tenore sessista e carico di pregiudizi sulle donne della sentenza in oggetto, frutto di un procedimento in cui si è più volte ricorso a una vittimizzazione secondaria.

Lo stupro della Fortezza da Basso

La vicenda risale al 2008 quando, al termine di una festa a cui era stata invitata da uno degli stessi accusati, la vittima denunciò di essere stata stuprata da un branco di ragazzi in un’automobile fuori dalla Fortezza da Basso, a Firenze. 

Al termine del processo di primo grado, sei dei sette imputati furono condannati per il reato di violenza di gruppo aggravato dallo stato di ubriachezza della vittima, in quanto gli stessi avrebbero approfittato della sua condizione di inferiorità psico-fisica causata dall’alcool. 

Tuttavia la situazione venne ribaltata nel 2013 in seguito alla pronuncia della corte d’Appello di una sentenza di assoluzione per insussistenza del fatto. Sebbene la Corte descrivesse la questione come «incresciosa e non encomiabile per nessuno», essa restava tuttavia un «fatto penalmente non censurabile».

Da un lato, la Corte sottolineava una serie di imprecisioni e incongruenze nella ricostruzione dei fatti da parte della vittima tali da minarne la sua credibilità e dall’altro, si spingeva a una valutazione critica di ogni aspetto della sua vita fino a contestarne il suo modo di relazionarsi o le sue abitudini sessuali.

Più precisamente, la Corte ricostruiva il profilo della presunta vittima dipingendola come «un soggetto femminile fragile, ma al tempo stesso creativo, disinibito, capace di gestire la propria (bi)sessualità, protagonista, nel corso della serata, di atteggiamenti particolarmente disinvolti in un clima goliardico e godereccio».

Dunque, nell’ottica della Corte, non solo la vittima non versava in alcuno stato di inferiorità psico-fisica ma nessuno dei ragazzi avrebbe esercitato alcun tipo di coercizione nei suoi confronti per indurla a un rapporto sessuale privo di consenso. Piuttosto, la Corte riteneva che, denunciando, «la vittima volesse rimuovere un suo assai discutibile stato di fragilità e debolezza».

Non stupisce che una simile decisione abbia generato indignazione nell’opinione pubblica, inducendo diversi movimenti femministi a organizzare eventi e iniziative di solidarietà nei confronti della vittima.

La decisione della Corte Europea dei diritti umani

Sulla base del contenuto della sentenza della Corte d’Appello, la vittima decise di ricorrere dinanzi alla Corte Europea dei Diritti Umani per due ordini di ragioni. In primo luogo, riteneva che le autorità nazionali avessero fallito nel tentativo di proteggere la sua vita privata e intima così come la sua integrità personale durante il procedimento penale.

In secondo luogo, riteneva che la sentenza di assoluzione dei presunti colpevoli così come l’attitudine della corte nei suoi confronti, attraverso domande inopportune e private, durante il procedimento penale dipendessero dall’esistenza di pregiudizi sessisti.

Sebbene la CEDU non voglia entrare nel merito della questione che ricade sotto la competenza delle autorità nazionali, essa rileva una violazione dell’articolo 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, allorché, in diversi passaggi della sentenza, la Corte d’Appello faccia esplicito riferimento alla vita personale e privata della presunta vittima.

Frequenti sono infatti i richiami alla sua bisessualità, all’intimo rosso indossato quella sera o alle precedenti relazioni sessuali della stessa, volte a sottolineare «il suo stile di vita non lineare». Richiami che la CEDU considera deplorevoli e inopportuni in quanto non rilevanti né ai fini della valutazione della credibilità della vittima né ai fini della risoluzione del caso.

In particolare, la CEDU ritiene che «il dovere di proteggere le vittime di violenza di genere comporti l’obbligo di proteggere la sua immagine, la sua dignità e la sua vita privata, anche attraverso la non divulgazione di informazioni e dati personali estranei ai fatti». La Corte prosegue poi, sostenendo che «il linguaggio e gli argomenti usati dalla Corte veicolano pregiudizi esistenti nella società italiana riguardanti il ruolo delle donne che ostacolano la piena protezione dei diritti delle donne vittime di violenza, nonostante il quadro normativo possa dirsi alquanto soddisfacente». 

Infatti, non capita di rado che le notizie di violenza sulle donne si accompagnino al proliferare di pregiudizi e stereotipi che tendono a giustificare comportamenti e aggressioni simili adducendo tra le scusanti lo stile di vita o il modo di vestire della vittima.

Tuttavia, quando simili motivazioni vengono riproposte e usate nelle aule di tribunale ne deriva un profondo turbamento per la vittima che si aspetterebbe di ricevere protezione dalle autorità, generando nella stessa vergogna e sensi di colpa e rafforzando così un clima di sfiducia nei confronti del sistema giudiziario che, in molti casi, comporta perfino la rinuncia a denunciare la violenza subita.

Il fenomeno di vittimizzazione secondaria

Non si tratta dunque di un caso sporadico bensì di episodi che si verificano con una certa regolarità sia durante gli interrogatori sia nelle aule di tribunale. Come non ricordare, a tal proposito, la cd. Sentenza dei jeans risalente al 1999 quando la Corte di Cassazione decise di assolvere il presunto aggressore di uno stupro poichè la presunta vittima indossava dei jeans considerati “un capo quasi imposibile da sfilare” senza la fattiva collaborazione di chi li indossa poichè si tratta di un’operazione già difficile di per sè per chi li indossa. 

La Corte conclude poi, ribadendo la convinzione che i procedimenti penali e le sanzioni rappresentano la più importante risposta istituzionale alla violenza di genere e alla lotta contro le disparità di genere  e sottolineando come, ancora una volta, le autorità giudiziarie abbiano fallito nel garantire protezione alle vittime, alimentando, al contrario, il fenomeno di vittimizzazione secondaria

Per evitare il ripetersi di ulteriori futuri episodi di vittimizzazione secondaria, è opportuno che l’Italia si adoperi fornendo un’adeguata formazione sia agli operatori di polizia sia agli operatori di giustizia, nel tentativo di superare l’arretratezza del sistema di giustizia italiano che, ancora troppo spesso, permette che un imparziale giudizio venga ostacolato e sostituito da inutili stereotipi e pregiudizi di genere. 


Immagine in copertina di Gzen92