Un’Europa Federale oppure no?
L’idea di un’Europa Federale è stata minata dai diversi metodi di cooperazione tra Stati che hanno caratterizzato il processo di integrazione europea.
L’Unione Europea (UE) si presenta, oggi, come un’organizzazione del tutto peculiare e si contraddistingue per un intreccio di elementi propri del modello intergovernativo e di caratteri tipici della cooperazione sovranazionale.
La prassi del processo di integrazione europea ha messo in luce come il progetto di un’Europa Federale sia, su un piano politico, di ardua attuazione: la persistenza degli interessi securitari degli Stati membri e le divergenze culturali che continuano a riscontrarsi nel territorio comunitario, soprattutto in seguito al grande allargamento ad est, hanno contribuito a rafforzare un modello di cooperazione volto a contenere le cessioni di sovranità dagli Stati membri all’Unione Europea.
Nonostante le reticenze di questi ultimi, spesso sono state le Istituzioni dell’UE e la giurisprudenza della Corte di Giustizia ad ampliare i confini delle attribuzioni comunitarie, interpretando in senso estensivo le disposizioni normative vigenti e ponendo in essere delle prassi sovente recepite nel quadro dell’evoluzione dei Trattati.
A ben vedere, l’idea di un’Europa Federale affonda le proprie radici in tempi più antichi. Nel 1923, Richard Nikolaus di Coudenhove-Kalergi scrisse il Manifesto Pan-Europa, introducendo in tal senso il concetto di un’Europa delle Nazioni. Le medesime idee influenzarono il pensiero di Aristide Briand, il quale, l’8 settembre 1929, nel periodo tra le due grandi guerre – che si caratterizza per la formazione delle prime organizzazioni internazionali – tenne un discorso dinanzi alla Società delle Nazioni, sostenendo la costituzione di un’Unione Europea; l’anno successivo, nel 1930, egli pubblicò, per il governo francese, il suo “Memorandum sull’organizzazione di un regime di Unione federale europea”.

Con la fine della seconda guerra mondiale, si cominciò ad acquisire la consapevolezza della necessità di avviare una collaborazione tra gli Stati europei: tale contesto politico, indubbiamente, contribuì a favorire la costituzione del progetto europeo. Lo stesso Winston Churchill, nel settembre del 1946, si pronunciò in favore di un’Unione di Stati d’Europa, salvo poi perdere consensi in favore di un substrato politico laburista, che influenzò le relazioni del Regno Unito con il resto del continente europeo per tutto il dopoguerra e che, non a caso, condusse lo stesso Regno Unito a far accesso alla Comunità solo nel 1973.
Lungi dal voler riproporre una narrazione tradizionale, che si limiti a rinvenire il fondamento dell’attuale Unione Europea nella mera volontà di cooperazione tra gli Stati, vi sono, invero, ragioni profonde, endogene ed esogene, cui si legano le scelte dei Paesi fondatori; ragioni che non possono essere circoscritte alla volontà di avviare un processo di pace in Europa e che forse, tutt’oggi, vanno tenute in debito conto nell’analisi circa i limiti all’applicazione di un modello federale nel continente europeo.
Infatti, se si guarda alla storia del processo di integrazione, i sei Paesi fondatori, al momento della costituzione della Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio (CECA), perseguivano interessi profondamente divergenti: l’Italia e la Germania miravano a riacquisire credibilità e a risollevarsi dopo essere uscite sconfitte dalla guerra; la Francia tentava di individuare la strategia più efficace per garantirsi una posizione di privilegio nella nuova Europa, ove la crescita tedesca si sarebbe dovuta sviluppare sotto la guida francofona; i Paesi del Benelux, in ultimo, perseguivano l’obiettivo di condividere le loro risorse primarie, ossia proprio il carbone e l’acciaio, che avrebbero consentito la ricostruzione dell’Europa nel dopoguerra.
Nella cornice citata, peraltro, non possono essere tralasciati neanche i fattori di natura esogena: in tal senso, l’influenza statunitense ai fini della realizzazione del progetto europeo si collocò nel solco di una serie di interventi volti a costituire una alleanza transatlantica, che consolidasse un blocco occidentale in funzione anti-sovietica.
I molteplici interessi perseguiti dalla Comunità, istituita nel 1957 con la firma dei Trattati di Roma, spiegano le ragioni della natura ambivalente del progetto europeo: da un lato prototipo di una federazione di Paesi, considerata quale fisiologica evoluzione dell’originaria cooperazione interstatale; dall’altro lato, mera organizzazione intergovernativa, ove le contenute cessioni di sovranità si spiegano nell’ottica del conferimento all’UE di poteri e competenze limitatamente a quelle materie in cui l’azione degli Stati risulta insufficiente (art. 5, par. 3 del Trattato sull’Unione Europea).
Sotto questo profilo, nonostante il generico obiettivo, privo di efficacia vincolante, di costituire un’unione sempre più stretta tra i popoli europei, l’evoluzione dei Trattati ha mantenuto la doppia natura dell’Unione e il Trattato di Maastricht, entrato in vigore nel 1993, rappresenta l’emblema di questo ibrido. Infatti, da un lato è stata introdotta la cittadinanza europea, che costituisce la massima espressione di quel legame che tradizionalmente caratterizza il rapporto Stato-cittadino: in questo senso, si esprime in modo indiretto un favor nei confronti di un processo di graduale federalizzazione dell’UE. Dall’altro lato, il medesimo Trattato tipizza elementi che rafforzano la dimensione intergovernativa del processo di integrazione, arginando il sogno di una vera federazione di Stati e mantenendo ben distinte le attribuzioni dell’UE da quelle dei suoi Stati membri.
La fine degli anni ’90 si caratterizza per un’attività di preparazione all’ammissione nell’Unione Europea degli Stati un tempo sottoposti all’influenza sovietica. In questa fase del processo di integrazione, due sono le questioni che si impongono con vigore: da un lato la caduta del regime sovietico, che ha portato con sé il venir meno del tradizionale antagonista europeo, generando una delle prime crisi identitarie dell’Unione, che fino a quel momento aveva cristallizzato la sua identità definendola in via residuale; dall’altro, l’espansione dei confini comunitari, che si ampliano fino a includere quegli Stati che avevano faticosamente avviato un processo di riforme per conformarsi agli standard europei, ma che, in concreto, erano del tutto privi di quel trascorso storico-culturale che aveva accomunato i Paesi membri della Comunità sino al terzo allargamento.
Nella cornice citata si assiste ad una spinta federalista con il tentativo di creare una Costituzione europea, arenato, poi, nel 2007, in seguito all’esito negativo di un referendum che si tenne in Francia e nel Paesi Bassi. Invero, anche quel testo consentiva la coesistenza delle due prospettive, intergovernativa e sovranazionale, nell’assetto europeo, tant’è che gran parte delle disposizioni vennero poi recepite nel successivo Trattato di Lisbona. Lo stesso nome attribuito alla progettata riforma “costituzionale”, forse troppo ambizioso, ha tuttavia contribuito a ingenerare il timore, in capo ai Paesi membri, di una quasi totale perdita del loro imperio statuale, in un momento storico in cui ci si apprestava a condividere le Istituzioni con Stati per lungo tempo sottoposti all’influenza sovietica.

Come accennato in precedenza, le modifiche apportate con l’ultima riforma dei Trattati, entrata in vigore nel 2009, hanno sostanzialmente confermato la doppia natura del progetto europeo, privilegiando talora l’applicazione del metodo comunitario, come con riferimento alle questioni di politica monetaria e commerciale, talora quella del metodo intergovernativo, come nel caso delle materie afferenti alla politica estera; talvolta, ancora, è stata addirittura esclusa del tutto la competenza dell’UE, come nel caso del settore delle politiche sociali.
Questa duplice spinta dell’Unione, che ha caratterizzato la storia di tutto il processo di integrazione e che permane tutt’oggi, si palesa sia quale tratto tipico della cooperazione avviata tra gli Stati comunitari, sia quale limite oggettivo che osta alla costruzione di un progetto federale. La prassi più recente, però, ha mostrato come, dinnanzi a talune sfide che travalicano i confini nazionali, come quelle poste dall’attuale pandemia di Covid-19, emerge ancora, imperterrita e fiduciosa, una solidarietà tale da suggerire un progressivo avvicinamento alla dimensione federale del progetto europeo.
L’idea sostenuta da alcuni, secondo cui ai fini della creazione di un’Europa Federale si debba pretendere non solo il riconoscimento di una comune identità europea, ma anche l’abbandono dei tratti distintivi propri di ogni Paese membro, oltre a presentarsi utopica, svilisce del tutto la ratio del processo di integrazione. D’altra parte, se si guarda alla costruzione degli Stati Uniti d’America, non possono non emergere, in modo quasi lapalissiano, le profonde divergenze che contrapponevano gli Stati nordisti a quelli sudisti; eppure l’America fu fatta e, tutt’oggi, si contraddistingue per un patriottismo del tutto peculiare.
Forse la culla d’Occidente avrebbe meritato un’autorevolezza maggiore; forse questa Unione, per evolversi davvero, avrebbe avuto bisogno di ambizioni più elevate da parte dei suoi Stati membri; forse la prassi più recente ha mostrato come il progetto di un’Unione Federale non sia ancora del tutto arenato.
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