Incarcerazione di massa e Covid-19: emergenza negli Stati Uniti

L’emergenza sanitaria ha colpito pesantemente il sistema penitenziario statunitense. Il Coronavirus aggrava quello che però è il suo problema più grande: l’incarcerazione di massa.


Secondo gli ultimi conteggi della Johns Hopkins University, la scorsa settimana gli Stati Uniti hanno raggiunto la soglia dei 27.490.037 casi di infezione da coronavirus, molti dei quali si sono registrati all’interno di istituti penitenziari. Il Covid-19 ha infatti pesantemente colpito la popolazione carceraria americana e ad oggi la  malattia non mostra alcun segno di rallentamento. 

A dicembre la National Commission on COVID-19 and Criminal Justice (NCCCJ), gruppo di giustizia penale apartitico fondato a luglio 2020 dal Consiglio di giustizia penale statunitense, ha pubblicato uno studio diretto ad analizzare specificatamente l’impatto avuto dal virus sulle prigioni americane. Dal rapporto emerge che il tasso di infezione del Covid sia stato tre volte superiore nella popolazione carceraria rispetto a quello della popolazione generale, mentre il tasso di mortalità il doppio.

Secondo i dati raccolti congiuntamente da The Marshall Project e The Associated Press circa 275 mila detenuti sono risultati positivi e più di 1.700 di loro sono morti. Tali numeri potrebbero inoltre essere solo la punta dell’iceberg. È probabile infatti che il bilancio reale sia ben più pesante, come sottolineato dal medico ed epidemiologo Homer Venters, ex direttore sanitario del complesso carcerario di Rikers Island (New York). Questo perché, in assenza di un piano di monitoraggio uniforme, non tutti gli Stati segnalano regolarmente infezioni e decessi. 

Il drammatico avanzare del contagio all’interno delle prigioni è stato tutt’altro che inaspettato per esperti di salute pubblica ed epidemiologi, i quali hanno previsto fin da subito la loro maggior esposizione al virus. Il direttore del Johns Hopkins Center for Health Security, il dott. Thomas Inglesby, ha evidenziato che proprio all’interno delle prigioni sussistono “le condizioni perfette per eventi di grande diffusione”. 

Si tratta di fattori di rischio esistenti all’interno di ogni struttura carceraria degli Stati Uniti, sia essa statale, federale o locale, già da prima dello scoppio della pandemia.

L’incarcerazione di massa è ritenuta da molti analisti la fonte del problema. Gli Stati Uniti sono il Paese al mondo che più frequentemente ricorre all’incarcerazione: nonostante rappresenti meno del 5 per cento della popolazione mondiale, detiene il 20 per cento totale dei detenuti del mondo, e gli istituti carcerari non sono adeguati a sopportare il peso di tale eccesso punitivo.

Gli spazi disponibili sono ristretti, affollati e antigienici. Non è raro che due detenuti condividano una cella grande quanto un armadio o che viceversa vivano ammassati all’interno di grandi stanze adibite a dormitorio. In entrambi i casi il distanziamento fisico è pressoché impossibile e la ventilazione scarsa. I detenuti condividono inoltre servizi igienici, lavandini, docce e sale da pranzo. In molti casi non viene loro fornito sapone gratuito.

«Sappiamo da tempo che le carceri sono depositi per la diffusione di malattie infettive, dalla tubercolosi ad altre infezioni respiratorie e questo coronavirus è ancora più contagioso, quindi non è affatto una sorpresa», afferma la dott.ssa Carolyn Sufrin, assistente professoressa e direttrice associata presso la Johns Hopkins University School of Medicine. Secondo una recente ricerca infatti ogni anno il carcere toglie due anni all’aspettativa di vita di una persona e determina un’accelerazione dell’invecchiamento di circa 10-15 anni. Di conseguenza i detenuti sono maggiormente esposti all’insorgere di patologie croniche quali cancro, ipertensione, malattie cardiache, respiratorie, infettive, malattie del fegato, ma anche malattie mentali.

Come è stato possibile ignorare l’impatto che il nuovo virus avrebbe avuto su soggetti dalla salute tanto debilitata? E perché non viene loro offerta l’assistenza medica necessaria? Dalle ispezioni effettuate dal dott. Venters presso una dozzina di istituti carcerari è emerso infatti anche questo preoccupante elemento. «Continuo a incontrare prigioni e carceri dove, quando le persone si ammalano, non solo non vengono testate, ma non ricevono cure. Quindi diventano molto più malati del necessario», ha riferito il medico in un’intervista. 

Domande senza risposta. Dopotutto sul mondo carcerario gravita da sempre un velo di disattenzione e indifferenza. Non possiamo negare che gran parte della popolazione percepisca i diritti dei detenuti come qualcosa di superfluo, come una sorta di regalo concesso a persone che in fin dei conti non se lo meritano. Perché se sei in carcere un motivo c’è, no? E se è la logica punitiva, e non quella rieducativa, a primeggiare, allora meno diritti e assistenza implica una punizione più ferrea e idonea.

Infine è utile e necessario analizzare un ulteriore dato, ossia quello relativo all’impatto razziale. Perché l’incarcerazione di massa non tocca tutte le comunità allo stesso modo. Le prigioni statunitensi sono sproporzionatamente piene di persone a basso reddito, in prevalenza appartenenti alla comunità nera. Quasi il 70 per cento della popolazione carceraria è rappresentato da afroamericani, i quali hanno maggiori probabilità di essere arrestati, condannati e di subire pene più dure rispetto agli americani bianchi.

Secondo la Prison Policy Initiative, un’organizzazione no profit dedita alla riforma della giustizia penale, molti dei detenuti delle carceri locali, circa il 74 per cento, non sono stati condannati per un crimine ma sono semplicemente in attesa di processo. Rimangono in carcere sostanzialmente perché talmente poveri da non potersi permettere il pagamento della cauzione.

La situazione carceraria riflette la situazione all’esterno delle mura. La comunità afroamericana è infatti la più colpita dalla pandemia. Un rapporto dei Centers for Disease Control and Prevention su un campione di 580 persone ricoverate in ospedale per infezione da Covid-19 ha rilevato che ben il 33 per cento dei pazienti era nero pur rappresentando solo il 18 per cento popolazione. Questo perché molti afroamericani svolgono i cosiddetti lavori essenziali a stretto rapporto col pubblico, quali infermieristica, negozi di alimentari, trasporti pubblici. Hanno di conseguenza maggiore probabilità di entrare in contatto con persone positive.

Pur trattandosi di lavoratori essenziali sono inoltre frequentemente sottopagati e questo negli Stati Uniti comporta l’assenza di una assicurazione sanitaria atta a rispondere a eventuali emergenze. Le condizioni di povertà, frequenti tra la comunità nera, così come tra quella latina e indigena, implicano una maggiore esposizione a malattie croniche, quali diabete, ipertensione e malattie cardiache, tutti fattori di rischio per l’insorgere di complicanze in caso di infezione da coronavirus.

Non è stato certamente il Covid a creare tali situazioni. La disparità di trattamento e il razzismo sistemico erano presenti da ben prima. La pandemia non ha fatto altro che “aumentare il rischio per coloro che sono già a rischio”, come affermato da David J. Harris, amministratore delegato del Charles Hamilton Houston Institute for Race and Justice presso la Harvard Law School.


Immagine in copertina di Bart Everson

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