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SanPa: paradiso o inferno?

Dal 27 dicembre su Netflix la docuserie “SanPa: luci e tenebre di San Patrignano”, la controversa storia della comunità di recupero per tossicodipendenti più grande d’Europa e del suo fondatore Vincenzo Muccioli.


È il 1978 quando Vincenzo Muccioli, figura problematica e controversa, fonda la comunità di San Patrignano a Coriano, in provincia di Rimini, che presto diventerà la più grande comunità di recupero d’Europa. L’intento è senza dubbio nobile: creare un posto per il recupero dei tossicodipendenti, coloro che fino a quel momento erano stati solo dei drogati reietti che la società cercava in tutti i modi di nascondere, come si fa con la polvere sotto il tappeto.

Cosima Spender decide di raccontarci la storia di questo fenomeno che non ha eguali, perché Muccioli è un personaggio che non ha eguali; una storia che mai nessuno aveva pensato di narrare così, senza veli, in una docuserie di cinque episodi da un’ora circa, “SanPa” appunto, priva di voce narrante, che si costruisce sulle testimonianze stesse dei protagonisti. Sono i filmati originali a parlare (quasi duecento le ore di archivi dell’epoca usati come fonte); le parole di chi ha vissuto quella realtà, tra odio e amore, sono cariche di sentimenti contrastanti, dalla rabbia alla nostalgia, dalla gratitudine alla delusione.

San Patrignano, conosciuta da tutti familiarmente come SanPa, diventa ben presto il punto di riferimento per centinaia, anzi migliaia di famiglie: genitori con figli perduti nel tunnel della droga che iniziano a vedere in Vincenzo Muccioli una specie di salvatore, anzi un santone vero e proprio (paragone calzante, considerato che lui stesso parlava spesso di stigmate e ambigui poteri curativi, quasi da medium e da appassionato sostenitore della parapsicologia).

Prima di lui nessuno aveva preso seriamente il problema della droga, una piaga sociale che nell’Italia degli anni ’80 non risparmiava nessuno, dal figlio della famiglia benestante di imprenditori a quello dell’operaio che si ritrovava a rubare o a prostituirsi per comprare la sua dose di eroina.

A SanPa non c’è differenza tra classi sociali, perché si parte dal presupposto che tutte quelle che arrivano lì sono anime perdute che Vincenzo Muccioli prende per mano, accogliendole in un percorso di recupero e per certi aspetti di rinascita.

Ma a che prezzo tutto questo? Quanto male si è disposti a tollerare per fare del bene? Qual è il limite invalicabile oltre il quale il male diventa ingiustificabile, anche a fronte dell’intento benevolo che si vuole raggiungere? 

Nel giro di qualche anno pesanti ombre iniziano a calare sulla comunità di San Patrignano: si viene a sapere di ragazzi in cura tenuti con le catene dentro canili per fronteggiare le crisi di astinenza, o per evitarne la fuga; la corrispondenza è filtrata, ogni lettera viene aperta, letta e se giudicata “scomoda” non spedita. 

Arrivano le notizie dei primi inquietanti suicidi, che sembrano gli ultimi messaggi di persone disperate, persone che vorrebbero scappare da quella prigione, ma non ce la fanno; fino al crimine più grave ed efferato, l’omicidio di Roberto Maranzano, massacrato di botte in comunità e trasportato fino a Terzigno, in provincia di Napoli, per depistare le tracce.

E in tutto questo sta sullo sfondo la sagoma imponente di Vincenzo Muccioli: uomo carismatico, narcisista, figura possente e ingombrante non solo a livello psichico per le fragili menti con cui si rapportava, ma anche fisicamente con il suo metro e novanta per più di 130 chili di peso. Quelle braccia forti che con fermezza stringono a sé quei corpi esili sfiniti dalla droga: sono dei morti che camminano, quelli che arrivano a San Patrignano.

Muccioli viene dipinto come una specie di santo: come Francesco che aiuta i lebbrosi, metafora dei reietti della società; allo stesso modo lui aiuta i drogati, e dopo i malati di AIDS, che sono i nuovi lebbrosi dell’Italia degli anni ’80.

Per tutta la sua vita Vincenzo Muccioli ha diviso l’opinione pubblica, e questo traspare bene dalla docuserie di Netflix, costruita in modo da essere il più oggettiva possibile, limitandosi a fornire elementi allo spettatore che possano permettergli una visione globale del fenomeno SanPa con cui elaborare la propria opinione.

«Il rapporto di SanPa con la verità è entrato in crisi nel momento in cui SanPa ha pensato che la sua immagine pubblica fosse più importante della sua verità interiore, perché l’immagine pubblica faceva più colpo, ti dava più consenso, ma quella è una strada di perdizione»: con queste parole Fabio Cantelli Anibaldi, ex ospite della comunità, nonché spalla di Muccioli e responsabile dell’ufficio stampa, descrive quello che a un certo punto ha causato il declino e la discesa inesorabile del “gioiellino” San Patrignano.

Muccioli a tratti è un santo, a tratti un mostro, non ci sono mezze misure: negli anni in cui ha gestito la comunità ha addotto come giustificazione ai suoi metodi il fatto di considerare tutti quei ragazzi come figli suoi, questa “innata paternità salvifica” sempre in bilico tra ossessione del controllo e delirio di onnipotenza, tra senso di protezione e possesso malato, che lo portava a utilizzare “ogni mezzo di correzione possibile”.

Le interviste ai programmi televisivi, il sostegno incondizionato della famiglia Moratti (che in totale arriverà a dare alla comunità 286 milioni di euro) e di gran parte dell’opinione pubblica (in primis quello di chi che aveva figli, parenti, amici caduti nel tunnel della tossicodipendenza), contribuiscono a galvanizzare una figura già enormemente piena di sé, che sostituisce la dipendenza dalle droghe dei suoi ragazzi con un altro tipo di dipendenza, quella affettiva nei suoi confronti.

È indubbio che SanPa sia una creatura figlia del suo tempo: un tempo in cui vi era un vuoto normativo gravissimo sulla materia della tossicodipendenza, un tempo in cui dilagava un’ignoranza strutturale conoscitiva nell’ambito delle dipendenze, anni in cui il drogato era solo una persona che disprezzava la vita (“colpa sua se si è ridotto così”), anni in cui era impensabile indagare i motivi di fondo che spingevano ragazzi e adulti a drogarsi. Perché per fare questo si sarebbe dovuto ammettere che la società era una società malata, incapace di rispondere e prevenire una piaga del genere.

Dare l’etichetta di giusto o sbagliato al fenomeno SanPa è, probabilmente, impossibile, e risulterebbe peraltro inutile. Ma per capire quanto l’esperienza in comunità abbia segnato profondamente chi ne abbia fatto parte, nel bene e nel male, resta emblematica una frase di Fabio Cantelli Anibaldi: «Vincenzo io ce l’ho sempre con me. Quello che io sono, lo sono anche grazie a Vincenzo e anche grazie a San Patrignano; anche se mi tocca riconoscere, nonostante Vincenzo e nonostante San Patrignano».

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