Incertezze e pandemia: come le scelte del governo britannico impattano sulla psicologia dei singoli
Ormai è noto come da decenni i governi britannici, rispetto alle spese nella sanità pubblica, siano stati sempre più micragnosi, specialmente le amministrazioni guidate dai conservatori. Come già accennato in questo aggiornamento, nell’ottobre 2016 viene messa in atto una valutazione della prontezza del Regno Unito in caso di emergenza, condotta da NHS nell’arco di 3 giorni, sotto l’allora segretario alla salute Jeremy Hunt. Il ministro è stato avvertito 4 anni fa che in caso di emergenza il Regno Unito sarebbe stato travolto da una carenza di letti di terapia intensiva, ventilatori, capacità in obitorio e kit ppe.
La prova, chiamata operazione Cygnus, ha testato come gli ospedali e altri servizi correlati avrebbero dovuto far fronte ad una ipotetica emergenza. Il governo ha ritenuto però i risultati troppo sensibili per essere di pubblico dominio e il risultato di questo test è rimasto secretato. Il Sunday Times rivela i dettagli dell’accaduto in questo articolo/inchiesta che svela come la politica abbia preferito non occuparsi del problema, nascondendo la polvere sotto il tappeto, sicura che la solita retorica del “va tutto bene, siamo i migliori al mondo” avrebbe dato un colpo di spugna all’incresciosa e opportunistica omissione. Il Regno Unito ha il numero più basso di letti per persona in Europa ma i Tories hanno ignorato i risultati del rapporto, dichiarando di aver letto il rapporto solamente la scorsa settimana.

La situazione in generale rimane abbastanza stabile, con una crisi economica che colpisce i piccoli e grandi business, con politici inadatti e un dibattito ormai compromesso dalle innumerevoli dichiarazioni nonsense che hanno fatto presa sul pubblico meno preparato.
Jonathan Ashworth, segretario alla salute, ha dichiarato a proposito di Cummings: «È un consigliere politico, non un esperto medico o scientifico. Se il pubblico deve avere fiducia in Sage (Scientific Advisory Group for Emergencies), il governo deve chiarire che Dominic Cummings non può più partecipare o intervenire. La preoccupazione è che i consiglieri politici abbiano influenzato il dibattito». Effettivamente lasciare indietro l’autorevolezza medica in favore dell’opinione politica, in una situazione come questa, è davvero incosciente. Risulta quasi automatico il rimando al premier italiano Giuseppe Conte, che esorta a distinguere fra doxa ed episteme (rispettivamente “opinione” contrapposta a “evidenza scientifica”). Intanto il PM Boris Johnson è tornato al lavoro e ha affermato che UK sta attraversando il picco, non tenendo (evidentemente) in considerazione i dati reali del Paese.
Questo, oltre ad essere un dato falsato (si muore anche fuori NHS), mina oltremodo la credibilità di un governo, già messo alle strette dall’opposizione. In questo video troviamo un attacco al governo sul tema aeroporti in cui si riporta come il CEO dall’aeroporto di Heatrow abbia personalmente scritto a Hancock per chiedere perché l’aeroporto dovesse rimanere esposto ad arrivi e partenze senza controlli, tamponi o altro, mentre nel paese si fanno file al supermercato e si consiglia la distanza sociale.
A questo proposito ci siamo sentiti in dovere di pubblicare una lettera arrivata alla nostra redazione il 14 Marzo da parte di una lavoratrice dell’aeroporto che si dice parecchio preoccupata per le scarse precauzioni. Ad oggi, se andiamo a vedere, gli arrivi e le partenze – sebbene siano diminuite – sono regolate da una comunicazione governativa che recita così: «Data la risposta dei Paesi alla pandemia di COVID-19, comprese le restrizioni di viaggio e di frontiera, l’FCO sconsiglia ai cittadini britannici di evitare tutti i viaggi internazionali, tranne quelli essenziali. Se vivi nel Regno Unito e stai attualmente viaggiando all’estero, ti consigliamo vivamente di tornare ora, mentre è ancora possibile».
La pandemia ha inondato come un blob la vita di tutti; lo sconforto e l’incertezza prendono piede e si cominciano a vedere i primi effetti, specialmente sulle due generazioni il cui futuro risulta compromesso, Millennials e Generazione Z.

A tal proposito la rivista The Lancet ha pubblicato il 21 Aprile un articolo in cui si sottolinea la necessità di interventi di supporto, osservando come il numero dei suicidi tenda ad aumentare come effetto collaterale della pandemia. A questo proposito abbiamo ascoltato il parere della dottoressa Tiziana Corsini, senior clinical psychologist del CAMHS (Child and adolescent mental health service – equivalente delle neuropsichiatria infantile, ndr) ente del Royal Free Hospital specializzato in disturbi alimentari.
«Mi occupo di disturbi alimentari dell’infanzia e adolescenza ma anche di tutte le altre problematiche di salute mentale di questa fascia d’età. Sono anche psicoterapeuta familiare, per cui sono particolarmente interessata alle dinamiche familiari in questo momento di crisi. Avendo anche una formazione in psicologia dell’emergenza, nel 2009 sono stata responsabile dell’assistenza psicologica in una tendopoli durante il terremoto dell’Aquila. Mi sento di fare questa precisazione poiché le dinamiche psicologiche che stiamo vivendo con il Covid-19 in UK ricordano le problematiche relative ad un’emergenza, seppur in un contesto sociale e culturale diverso dall’Italia del 2009.
Durante le situazioni di emergenza siamo sottoposti a stressors di varia natura (psicosociale, relazionale, lavorativo, etc.), pertanto chi ha problemi di salute mentale pregressi all’evento può avere una maggiore sensibilità ai cambiamenti radicali che l’emergenza porta con sé. Nel Regno Unito la popolazione si è trovata all’improvviso a dover adottare comportamenti di distanziamento sociale per combattere il virus e questo ha implicato la chiusura di scuole e uffici e la diminuzione di contatto sociale con l’esterno. Questo ha alterato anche la fruibilità di alcuni servizi come quelli di salute mentale poiché l’NHS ha dovuto convogliare le sue risorse per affrontare l’emergenza coronavirus. Anche le charities hanno sofferto una diminuzione dei servizi e quindi i soggetti a rischio sono diventati più “esposti” per potenziali difficoltà di accesso ai servizi.
Da un punto di vista cognitivo, queste situazioni traumatiche possono alterare la percezione della realtà: emergono emozioni di shock, rifiuto e negazione che impediscono di elaborare l’evento e “trovare un senso” a quello che sta accadendo. Al momento si evidenzia un rischio maggiore di ansia, depressione e disturbo post traumatico da stress legato alla pandemia e spesso accentuato dalla convivenza più ravvicinata e dalla mancanza di stimoli. Il suicidio in UK rimane un problema sociale molto sentito e credo che il governo sia consapevole del rischio per la salute mentale della nazione. Credo che imporre un lockdown non proprio rigoroso come quello italiano ha avuto essenzialmente questo scopo, ossia garantire delle “valvole di sfogo” come le uscite per l’esercizio fisico. Nel servizio sanitario nazionale i servizi di salute mentale hanno risposto rapidamente per offrire servizi da remoto ai pazienti, pertanto si è vista una risposta mirata a contenere il danno di questa situazione.
La stampa si è interessata a vari fattori predisponenti a problemi di salute mentale come l’aumento della violenza domestica, i problemi di adattamento dei bambini/adolescenti e quelli delle persone con disabilità, solo per dirne alcuni.
A mio parere, il fatto che il governo e la stampa parlino apertamente dei rischi per la salute mentale, può aiutare la popolazione a vedere come “normali” delle reazioni che potrebbero invece essere percepite come preoccupanti ma che sono invece reazioni adattive ad una situazione traumatica. L’NHS e il terzo settore (charities come “Mind” o “Beat”) stanno mettendo in campo interventi che mirano a portare consapevolezza (raise awareness) dei rischi per la salute mentale ma anche a lavorare sulle capacità di resilienza: lo sviluppo di materiale informativo, le pagine dedicate su internet e la visibilità sui social media mirano a sensibilizzare la popolazione sui rischi psicosociali. Anche nelle conferenze stampa governative si enfatizza molto il carattere temporaneo della situazione e questo dovrebbe aiutare la popolazione a fronteggiare meglio la perdita della normalità.
Il personale dell’NHS in questa vicenda sta combattendo un’emergenza senza precedenti ed il ritorno di entusiasmo da parte della popolazione è molto gratificante. Sappiamo che l’NHS ha subito molti tagli nell’ultimo decennio e che mancano molte figure sanitarie, per cui la pressione per chi è in prima linea al momento è talvolta sproporzionata rispetto alle risorse disponibili. Ci sono polemiche sulla mancanza di dispositivi di protezione, che hanno inciso sul morale dello staff e hanno portato a manifestazioni in piazza perché lo staff sanitario non si sente tutelato; questo fa da sfondo allo stress relativo alla situazione e incide sulla fiducia che lo staff ripone nell’istituzione. Al momento il rischio di burnout e vissuti traumatici negli operatori è alto; in alcuni servizi dell’NHS sono presenti iniziative di supporto psicologico telefonico o multimediale per gli operatori, compreso l’accesso ad app per praticare mindfulness o rilassarsi dopo una giornata di lavoro.
Personalmente trovo molto utile pensare agli aspetti di salute mentale degli operatori e non soltanto al loro slancio eroico: questo offre il beneficio di prevenire problemi psicologici a lungo termine una volta che l’emergenza è finita. Sappiamo infatti che il disturbo post traumatico da stress può avere esordio ritardato, per cui aiutare i soggetti a rischio in modo tempestivo può sostenere chi è a rischio.

Vivere all’estero porta con sé dei vissuti spesso in conflitto tra quello che si è lasciato e quello che si ha, è un po’ come essere seduti fra due sedie. Credo che nella comunità italiana ci sia stato un alto livello di allarme dato dalla percezione della situazione in Italia, a cui faceva da contraltare una risposta percepita come non tempestiva del Regno Unito. Molti italiani hanno adottato misure di auto-isolamento in maniera preventiva anche prima del 22 marzo e questo ha generato risposte perplesse da quelli che non percepivano ancora il problema. Molte mamme italiane non hanno mandato i figli a scuola anche prima del lockdown e persone che lavorano in centro prendevano la metro con la mascherina. Credo che la comunità italiana si sia sentita anche confusa nel vedere le stringenti regole applicate in Italia e la tolleranza del lockdown inglese.
In questa occasione è stato molto interessante da un punto di vista sociale riflettere su come ciascuna cultura percepisce il binomio salute/malattia e come questi valori siano culturalmente determinati: è noto che noi italiani siamo attenti alla salute, alla prevenzione e cerchiamo di diffondere questo messaggio, mentre magari altre persone che provengono da altri contesti possono non condividere tale approccio. Su BBC news leggevo storie di auto-isolamento in flatshare e della difficoltà di trovare punti di mediazione sulle misure da adottare in auto-isolamento. Molti connazionali hanno scelto di tornare in Italia, nonostante fosse uno dei paesi più colpiti, pur di restare accanto alla propria famiglia e probabilmente questa scelta è stata dettata da alcuni fattori ambientali (ad esempio, la solitudine in una città come Londra).
Le persone di tutte le età con problemi di salute mentale pregressi o attuali sono una fascia molto a rischio, così come i disabili e le persone che hanno scarso accesso ai servizi o assenza di rete di supporto. Come spesso succede in situazioni di emergenza, la comunità sta reagendo in maniera coesa a questa emergenza e quindi questo può proteggere le persone più fragili. Quello che mi preoccupa nella realtà londinese, sono le differenze sociali, che sono un fattore che di per sé può influenzare la capacità di risposta ad un evento simile. La qualità della vita precedente all’evento può essere un fattore di protezione: sul Guardian sono spesso usciti articoli che inquadrano le difficoltà delle persone di background BAME (Black Asian and minority ethnic) oppure coloro che si trovano in condizioni abitative non ottimali. Insomma, un bambino che può giocare nel giardino di casa sua e un bambino che vive in un appartamento affollato in zone disagiate e senza verde avranno risposte e percezioni assai diverse del lockdown.
Il governo sta prendendo coscienza della serietà del problema e ha messo in campo manovre di supporto sociale e finanziario che qui non si erano viste prima, come il furlough scheme (cassa integrazione). Le conferenze stampa cercano di spiegare e rassicurare la popolazione dando l’immagine di un governo che si muove in maniera concertata per risolvere questa emergenza. Quello che potrebbe essere migliorato a mio parere è il livello di trasparenza (mentre il modello che ha informato la risposta del governo degli Stati Uniti è disponibile gratuitamente come documento google, il modello dell’Imperial College di Londra che ha richiesto l’attuale blocco in UK non è stato ancora pubblicato) e la possibilità di apprendere da esperienze di altri paesi. Mi piacerebbe vedere l’adozione di un linguaggio facile e comprensibile che non lasci spazio ad interpretazioni e che spieghi la linea di azione senza vaghezza. Ad esempio, dire che siamo fuori dal picco, quando il numero dei casi e le morti aumentano quotidianamente a tre cifre, rischia di produrre un messaggio ambivalente e pertanto di difficile interpretazione, oltretutto in un momento critico come la settimana che precede la review delle misure. L’Inghilterra ha scelto più o meno condivisibilmente di andare per la sua strada con Brexit, ma potrebbe trarre spunto da altri stati europei sulla gestione del Covid-19 e della prossima fase, ad esempio dando un messaggio univoco sull’utilità delle mascherine nella fase due. I numeri riportano che il Regno Unito ha superato Francia e Spagna per numero di morti, ma il tasso di mortalità non viene mai discusso nelle conferenze stampa, sebbene questi dati aiuterebbero a capire la linea di indirizzo governativo e soprattutto la necessità di implementare certe regole.
Voglio concludere questa intervista pensando agli adolescenti: lavorare con loro è un piacere ed un onore per me e quindi voglio parlare delle loro perdite, siano queste perdite di momenti gioiosi con gli amici oppure della normale routine giornaliera o della pressione da esami. Questa emergenza porterà via tanti “rituali di passaggio” che sono tipici di questa fase nella società inglese: fare gli esami a fine anno (GCSEs, A levels), andare in gita all’estero, andare ai festival e campeggiare. Questi momenti sono attesi con trepidazione dai ragazzi e quest’anno il virus impedirà di vivere appieno tutto questo.
Nelle sedute con i miei pazienti le perdite stanno emergendo in modo forte e chiaro e personalmente credo che il lavoro che noi adulti dobbiamo fare sia quello di accogliere i vissuti di tristezza, depressione e noia, senza cercare di “evitare” queste emozioni, senza invalidare tutto con un “you’ll be fine”. È difficile per noi adulti confrontarci con l’impotenza di non poter garantire risposte certe né di proteggere i nostri ragazzi dalle incognite ma al momento questi vissuti devono trovare una voce. Quello che possiamo fare è offrire spazi di dialogo, espressione e confronto senza negazione perché gli adolescenti trovino da soli le loro soluzioni e sviluppino capacità emotiva e resilienza».