«Don’t (forget to) smile!»

Poco più di dieci anni fa Heath Ledger, interpretando Joker, ci poneva una delle domande più inquietanti di sempre, che da allora non avrebbe più avuto lo stesso suono: «Why so serious?». Oggi, dopo circa un decennio, continuiamo a essere “serious” guardando Joaquin Phoenix che ci turba con l’angosciante monito «Don’t forget to smile!», all’occorrenza trasformato in un secco «Don’t smile».

Tutti lo conosciamo come Joker, uno dei cattivi più cattivi dei fumetti, il villain, l’antagonista per eccellenza di Batman. Ma chi è veramente Joker? Nessuno prima del regista Todd Phillips aveva mostrato interesse a raccontare chi fosse questo personaggio prima di diventare proprio quel Joker noto a tutti.

Heath Ledger nel ruolo di Joker ne “Il cavaliere oscuro” (2008)

Joker è Arthur Fleck: un uomo con evidenti disturbi mentali, che vive una vita anonima, costretto ad accudire la madre anziana e malata, in un appartamento fatiscente. Fleck è quello che si potrebbe definire un reietto della società, un rifiuto umano in carne e ossa che va a unirsi e a confondersi con la spazzatura che riempie l’immaginaria città di Gotham. Un’esistenza priva di qualsiasi colore, scandita solo dai programmi televisivi, unici veri appuntamenti fissi e importanti nelle giornate di Arthur.

Nonostante il grigiore della sua esistenza, Arthur ha un sogno nel cassetto, quello di diventare un comico nella stand-up comedy, vuole far ridere la gente perché “sua mamma gli ha sempre detto di essere nato per rendere felici gli altri”, al punto da chiamarlo Happy, nomignolo assurdo e fuori luogo visto il contesto. La sua stessa fisicità non lo aiuta: magro, a dir poco scheletrico, le scapole sporgenti, le costole che possono contarsi una a una (la trasformazione di Phoenix ricorda quella di Christian Bale per L’uomo senza sonno) lo rendono una sorta di larva, preda facile di teppisti e malintenzionati, in una città ad altissimo tasso criminale e totalmente alla deriva.

Arthur risponde a questo degrado e a questo squallore con la sue fragorose risate, inopportune quanto imbarazzanti, sintomo di una evidente inadeguatezza comportamentale. «Nella mia vita ho avuto solo pensieri negativi»: in questa frase pronunciata davanti all’assistente sociale che lo ha in cura, si racchiude tutto il dolore, la consapevole sofferenza di un uomo disturbato e totalmente abbandonato a se stesso. «Lei non mi ascolta, mi fa ogni settimana le stesse domande»: Arthur è pazzo, ma non stupido, e comprende bene il menefreghismo e l’assoluta inutilità di questi colloqui, che lui utilizza solo per procurarsi le medicine per tenere a bada i suoi problemi.

La follia di Arthur prende il sopravvento non appena si rende conto di essere deriso da quelle stesse persone che lui riteneva importanti: il suo presentatore preferito, Murray Franklin (Robert De Niro) non esita a esporlo al pubblico ludibrio e a prenderlo in giro davanti a milioni di telespettatori mostrando la clip di uno spettacolo in cui Fleck aveva tentato, invano, di raccontare delle barzellette. Persino sua madre, che lui ha accudito e amato fino all’ultimo, gli nasconde informazioni sconcertanti che mettono in discussione tutta la sua esistenza. La sua vicina di casa, per la quale ha un debole, si rivela essere una menzogna. Il crollo delle sue (poche) certezze lo destabilizza e lo trascina nel baratro.

Il ghigno e le smorfie di Phoenix lasciano presagire qualcosa di terribile ad ogni scena: la lucida follia si riflette in ogni sguardo, in ogni passo di danza, lugubri movimenti che vogliono imitare i balli di Fred Astaire. Arthur non ha bisogno di indossare una maschera, perché la sua personalità disturbata fa parte di lui, è spalmata sulla sua pelle, come le pennellate sulla sua faccia: bianco, rosso, verde, azzurro. Quel rosso sulle labbra che presto diventerà vero sangue, il suo sangue.

I richiami al Joker di Heath Ledger sono evidenti, al punto che in alcuni momenti si ha quasi l’impressione di (ri)vederlo in carne e ossa: sebbene Phoenix sia ben lontano dal voler imitare il personaggio portato sullo schermo dal defunto collega è innegabile che, oltre al trucco e ai capelli, le smorfie e persino alcune scene (come quella del viso appoggiato al finestrino dell’auto della polizia, a seguito dell’arresto) siano un omaggio al Joker di quasi un decennio fa. Evidente inoltre il richiamo a Travis Bickle, il protagonista del celebre Taxi Driver di Martin Scorsese.

Phoenix ci dona un’interpretazione magistrale di un personaggio ambiguo e controverso e riesce a rendere umano un mostro, un cattivo, un anti-eroe. In una Gotham surreale avvolta dalle fiamme, in un caos infernale, simbolicamente muore l’anonimo e invisibile Arthur Fleck, per rinascere nelle vesti del leggendario Joker.