“La via della seta” giapponese che l’Italia potrebbe seguire

Di Ugo Lombardo – Secondo i criteri omogenei dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse), il rapporto debito/Pil italiano è al 153% ed è più elevato di quello comunemente riportato, il doppio rispetto a quello della Germania (71%), ma inferiore al 223% del Giappone.

Partendo da questo presupposto, i problemi del nostro Paese potrebbero essere stati determinati dai vincoli di Maastricht (rapporto Debito/Pil e Deficit/Pil) e dalla Banca Centrale Europea (BCE) che ha smesso di comprare Btp. Nonostante ciò, però, a differenza dei rendimenti dei titoli di stato italiani, quelli giapponesi, da anni, sono vicino allo zero, come in Germania, mentre noi paghiamo uno spread elevato. Questo è indicativo di come il Giappone possieda una visione di politica economica diversa ed opposta a quella del nostro governo, nonostante versi in condizioni di debito “peggiori”.

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Si potrebbe pensare che ciò sia dovuto all’intervento della Banca del Giappone, perché detiene il 42% del debito pubblico (45% includendo altre entità governative), simile al 40% di Btp detenuti dalla BCE, Banca d’Italia e banche italiane (finanziate dalla BCE). In realtà, la differenza risiede nell’aspetto per cui il governo giapponese non preoccupa gli investitori, a differenza del nostro. A dimostrarlo è proprio lo spread di quasi 200 punti dei Btp a 3 anni, indicativo della paura di una crisi a breve termine più che della sostenibilità del debito nel lungo periodo.

La sostenibilità del debito, inoltre, dipende dalla composizione della spesa pubblica, dalla quantità di risorse che lo Stato riesce ad assorbire e dall’efficienza con cui le distribuisce. In tal senso, la differenza tra Giappone ed Italia è notevole: il primo ha una spesa pubblica per interessi pari allo 0,5% del totale, ma libera risorse per investimenti pubblici pari al 10% della spesa, più del doppio dell’Italia che, invece, ha una spesa pubblica per interessi pari al 3,7%.

Non bisogna dimenticare anche che il Giappone sottrae meno risorse all’economia per la diversa pressione fiscale che risulta essere appena del 30,6%, mentre in Italia è pari al 42,6%. Questo significa meno spesa pubblica da un lato, ma allocata in modo più efficiente dall’altro: il Giappone spende di più per l’istruzione (7,6% del Pil rispetto a 6,9%), quanto l’Italia spende per sanità e sicurezza, ma molto meno (16% del Pil rispetto al 21%) per i trasferimenti correnti per pensioni e spesa sociale assistenziale. Sostanzialmente è la politica inversa di quella italiana con “Quota 100” e “Reddito di cittadinanza”.

Ma cosa effettivamente può rendere sostenibile un debito così elevato? La risposta si può ricercare nella crescita del reddito pro capite che, a sua volta, dipende da quella della produttività. Se, infatti, il reddito dei cittadini sale, mentre la pressione fiscale è bassa, maggiore sarà la capacità di pagare le imposte in futuro per ridurre il debito senza ricorrere ad inflazione, ristrutturazione o altre forme di repressione finanziaria.

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Ritornando al rapporto Debito/Pil, solitamente si guarda alla crescita del Pil complessivo, ma in un Paese con popolazione in diminuzione (come in Italia ed in Giappone) e deflazione, è più rilevante quello pro capite. Dalla crisi del 2008, il reddito pro capite giapponese a prezzi costanti è cresciuto complessivamente del 14,6% (più di Usa e dell’Eurozona, eccetto la Germania) mentre in Italia solo dello 0,9%. Questo grazie ad una crescita della produttività del lavoro che, a fronte della stasi italiana, è aumentata del 9,8% nel periodo.

Qual è il segreto alla base della solidità finanziaria giapponese? Il meccanismo è all’apparenza semplice: il governo giapponese emette obbligazioni (Japanese Government Bonds – JGB) a tasso zero/negativo per rifinanziare il debito e la Bank of Japan (BoJ), e gli investitori istituzionali le comprano titoli, a prescindere dal rendimento offerto. Il debito è detenuto all’88% nelle mani di istituzioni pubbliche o semi-pubbliche (banche, fondi pensione ed assicurazioni) che non sono prone a rivenderli sul mercato secondario.

Gli scambi sui titoli giapponesi, infatti, sono relativamente scarsi, con dei prezzi estremamente stabili nel tempo che rendono il mercato per nulla appetibile ai trader speculativi. L’unico fenomeno degno di nota in tal senso è lo spostamento di un 20% del debito dal settore finanziario privato verso la Banca Centrale. Tutto ciò è legato al massiccio Quantitative and Qualitative Easing varato nel 2013 dal governatore Kuroda per contrastare le minacce deflazionistiche.

La scarsa propensione al consumo ed agli investimenti del settore privato del Giappone, infine, ha ridotto l’efficacia dello stimolo monetario, ma questa insensibilità a variazioni drastiche di politica monetaria ha accresciuto, inaspettatamente, la capacità della BoJ di detenere il debito pubblico per lunghi periodi, senza grossi problemi nell’economia reale.

Concludendo, la “via della seta” dell’economia giapponese rappresenta un ottimo esempio di come si può convivere con un debito pubblico elevato, facendo investimenti pubblici positivi attraverso un miglioramento della produttività del lavoro e, quindi, con un aumento del reddito pro capite. Un circolo virtuoso che sembra, però, essere estraneo all’economia italiana.