L’avvitamento italiano

Di Francesco Paolo Marco Leti – La Commissione europea ha bocciato in modo definitivo la manovra di bilancio del Governo giallo-verde e, particolare non di poco conto, le motivazioni della bocciatura sono deficit eccessivo e violazione della regola del debito.

Il rispetto di questi due criteri è sancito dal Patto di Stabilità e Crescita – nonché dall’art. 1 del Protocollo (N.12) sulla procedura per i disavanzi eccessivi allegato al Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE) – e gli stessi rappresentano gli indicatori principali di finanza pubblica che sono: il rapporto fra deficit e prodotto interno lordo (PIL), da mantenersi entro il 3%; il rapporto fra debito pubblico e PIL, entro la soglia del 60%.

Il secondo valore, in realtà, non è rispettato da molti Paesi della zona Euro, con la relativa regola che è stata interpretata in modo più flessibile: non vi è, infatti, l’obbligo per i Paesi di rientrare bruscamente nella soglia del 60%, ma è necessario semplicemente dimostrare un percorso virtuoso e credibile di finanza pubblica che permetta di rientrarvi nel lungo periodo. La bocciatura della Commissione dovrà essere confermata dal Consiglio Economico e Finanza (Ecofin) e, anche se la sua prossima seduta è prevista per il 4 dicembre, sarebbe abbastanza irrituale una bocciatura che preceda il varo definitivo della finanziaria.

Pertanto è molto probabile che tale bocciatura arrivi nel gennaio del 2019 (e probabilmente entro il 22). Inoltre, a livello europeo, in sede di Ecofin, vi sono poche speranze per il nostro Paese perché vi è un forte isolamento da parte dei partner dell’Eurozona, compresi quelli vicini politicamente al Governo italiano, in materia di finanza pubblica. Di conseguenza sia la bocciatura che la relativa procedura di infrazione, sembrano quasi scontate.

Bisogna aggiungere che, in campo europeo continuano i sussurri circa un contenimento del “rischio Italia”. Il motivo è che si è diffusa sempre più la convinzione che il Governo andrà allo scontro frontale con le Istituzioni europee, facendo saltare i conti del Paese e creando le condizioni per una crisi sistemica dell’area. Date queste condizioni, iniziano a essere proposte riforme di alcuni strumenti che permettano di contenere il rischio rappresentato dal nostro Paese.

In particolare, nella proposta di riforma franco-tedesca di Meseberg, vi è il tentativo di trasformare l’European Stability Mechanism (ESM) in una sorta di fondo monetario europeo che agisca da cordone nel caso di crisi, agendo con maggiore rapidità e con una struttura più semplificata, pur mantenendo la condizionalità prevista dalle regole attuali. La dotazione attuale dell’ESM non è in grado di sostenere il salvataggio del nostro Paese, ma sarebbe in grado di sostenere quelli eventualmente coinvolti da una crisi del debito italiana, fornendo la liquidità necessaria.

Queste premesse, così come la situazione di forte scontro fra Governo italiano e Istituzioni europee, stanno cominciando a minare alla base la credibilità della politica economica italiana, con effetti inquietanti sulla fuga di capitale estero dal nostro debito. Tale condizione è ben delineata nel recente rapporto della Banca d’Italia (novembre 2018), in cui viene sottolineato come una funzione centrale nella collocazione del debito viene svolto dalle banche nazionali:

«Nel secondo trimestre dell’anno la quota di titoli pubblici italiani detenuta da investitori esteri si è ridotta di circa tre punti percentuali, al 24 per cento, la variazione negativa più alta dal secondo trimestre del 2012 … Nello stesso periodo la percentuale delle banche italiane è tornata a crescere, aumentando di circa due punti percentuali, al 18 per cento. Il calo della quota dell’estero e l’incremento di quella delle banche sono proseguiti nel terzo trimestre, sebbene a un ritmo più moderato».

La fuga degli investitori esteri è stata accompagnata, nell’ultima asta dei “BTP Italia”, da quella dei cassettisti, particolare categoria di piccoli risparmiatori che mantengono i titoli fino alla loro scadenza e non vi svolgono attività speculative. Nelle aste, a fronte di un’attesa di raccolta di 6 – 7 mld da parte del Tesoro, sono stati piazzati appena 863 milioni presso i piccoli risparmiatori e gli investitori istituzionali hanno parzialmente rianimato l’asta, acquistando 1,35 mld di debito, portando la raccolta complessiva della stessa ad appena 2,1 mld, ossia la peggiore dal giugno 2012.

Secondo gli analisti, il drastico fallimento è dovuto al ritorno di fiamma verso il mercato immobiliare da parte dei piccoli risparmiatori, considerato più sicuro e remunerativo del debito pubblico italiano.

Il colpo di scena della ritrovata volontà di trattare e confrontarsi fra il Premier italiano, Giuseppe Conte, e il Presidente della Commissione europea, Jean-Claude Junker, nella cena della settimana scorsa, ha sorpreso tutti. A sostenere la nuova linea “trattativista” del Governo sono stati anche gli ammorbidimenti dei due vice-premier, Matteo Salvini e Luigi Di Maio, che hanno lasciato intuire come una discesa del deficit sia possibile.

Gli effetti sui mercati del cambio di passo del Governo sono stati evidenziati dal calo del differenziale e dalle chiusure positive della nostra piazza finanziaria, a dimostrazione del fatto che alla radice della crisi non vi siano i fondamentali economici del Paese, peraltro discreti, ma la sfiducia e l’isolamento creati dallo scontro fra Istituzioni europee e Governo.

A causa della sfiducia sulle politiche dell’attuale esecutivo e della scarsa incisività in materia economica di quelle dei predecessori, come si può intuire, si rischia di pagare un conto salato in termini di crescita economica. I dati recenti dell’Istat dimostrano come, nell’ultimo trimestre e per la prima volta da anni, il Paese sia tornato indietro, anche se solo dello 0,1%. Il PIL acquisito per il 2018, salvo complicati rimbalzi nell’ultimo trimestre, sarà dello 0,9%.

Disaggregando i dati, è possibile notare come le batoste maggiori, con riferimento a tale risultato, provengano dai consumi (sostanzialmente immobili) e, soprattutto, dagli investimenti fissi (-1,1%). Il dato sugli investimenti risulta particolarmente indicativo, perché sembrerebbe sottolineare come le imprese non si aspettino una crescita dei consumi nel breve periodo e abbiano “tirato i remi in barca”.

Questi dati, letti insieme a quelli per niente idilliaci sull’occupazione, fanno ulteriormente crescere i sospetti sulla credibilità dei conti presenti nella manovra e che, nel Documento di Economia e Finanza (DEF) presentato dall’attuale Governo, riportavano la crescita del 2018 all’1,2% (contro la stima più prudenziale del Governo precedente dell’1%) e all’1,5% per il 2019.

Un calo del PIL di questo e del prossimo anno impatterebbe, ovviamente, sul rapporto deficit/PIL previsto dall’esecutivo giallo-verde, allargandolo, pur in assenza di qualsiasi modifica del contenuto della manovra. Allo stesso modo, il costo finanziario della correzione del 2,4% di deficit sarebbe maggiormente gravoso da attuare con l’economia in rallentamento.

La speranza è che il clima di maggiore collaborazione fra Governo italiano e Commissione europea possa portare ad una decisa diminuzione del rendimento dei nostri titoli di Stato, permettendo, al contempo, di alleggerire, se non evitare del tutto, l’avvitamento verso quella che sembrerebbe essere una nuova recessione all’orizzonte, le cui radici si trovano, come sempre, al di fuori dei confini nazionali, ma che le politiche economiche interne, assieme a quelle comunitarie costantemente pro – cicliche, possono rendere ancor più costosa, in termini di tenuta del tessuto sociale.


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