Steve Bannon e l’internazionale sovranista

 
 

Uno spettro si aggira per l’Europa? Si dice che la storia sia cambiata e, volendo forzare la mano, si potrebbe continuare a giocare con le citazioni illustri e ricordare che la storia si ripete sempre due volte: la prima volta come tragedia e la seconda come farsa. Tenendo conto delle dovute proporzioni ed evitando paragoni impropri, la vicenda di Steve Bannon ben si adatta a questa pillola di filosofia della storia. Si è parlato molto, forse troppo, del passaggio di questo personaggio in Italia, raffigurato come una sorta di Rasputin postmoderno a cui si attribuisce la responsabilità della vittoria di Trump.

Chi è Steve Bannon? Nato durante il baby boom americano del secolo scorso da una famiglia operaia, dopo un’esperienza nella marina militare, Bannon inizia un percorso come banchiere d’investimento a Goldman Sachs. Negli anni Novanta si dedica all’attività di produttore cinematografico. Dieci anni dopo fonda insieme ad Andrew Breitbart l’omonimo sito di informazione e, dopo la sua morte, ne diventa presidente; nello stesso periodo inizia a collaborare con Cambridge Analytica. La fama internazionale arriva proprio a partire da quest’esperienza: nell’agosto del 2016, viene scelto da Donald Trump come chief executive della sua campagna presidenziale.

Siamo di fronte a un abile spin doctor? Non esattamente. Il sito di cui è presidente, Breitbart, non è semplicemente un giornale ultraconservatore ma, per stessa ammissione di Bannon, la piattaforma dell’alt-right, ovvero della destra più razzista, misogina e complottista che ha trovato su internet (e in particolare su siti come 4chan e Reddit) il suo terreno di coltura ideale. Se a questo aggiungiamo che tra i molti riferimenti culturali di Bannon c’è Julius Evola, capiamo perché si tratta di un personaggio inquietante.

Inquietante e ingombrante, al punto che dopo un anno Donald Trump lo allontana sia dall’incarico di chief strategist della Casa Bianca che dalla direzione di Breitbart (di proprietà della famiglia Mercer, molto vicina a Donald Trump).

Questa premessa è necessaria a comprendere il senso delle trasferte di Bannon in Europa nei mesi successivi: a partire da marzo del 2018, Steve Bannon inizia a stringere contatti con i partiti populisti del vecchio continente e aderisce a The Movement, un’organizzazione fondata dal leader dei populisti belgi Mischael Modrikamen con l’intento esplicito di unire i partiti populisti di tutta Europa in vista delle elezioni del 2019. La sua offerta è semplice: big data e know-how per garantire il successo a tutti i partiti e movimenti populisti in Europa, gli stessi che hanno garantito il successo di Trump.

Da qui bisogna giudicare la credibilità del progetto: se è vero che l’uso spietato dei dati raccolti più o meno legalmente sui social network da parte di società come Cambridge Analytica ha fatto la differenza, è altrettanto vero che la proposta di un’internazionale sovranista ha ricevuto un’accoglienza tiepida da tutti i movimenti populisti, con l’eccezione di Francia e Italia. Se qui si è parlato e si continua a parlare del suo progetto è per due motivi.

Il primo sono gli assetti politici presenti e futuri del governo e del centrodestra: è chiaro che Giorgia Meloni ha invitato Bannon alla kermesse della destra di Atreju e ha aderito a The Movement per lanciare un invito a Matteo Salvini in vista delle europee, dopo che il capo politico della Lega ha aderito a The Movement e ricevuto un incarico di peso al suo interno.

Il secondo è che personaggi come lui fanno comodo a un centro sinistra incapace di superare la propria crisi esistenziale: immaginare una grande mente che manipola un elettorato impaurito è molto più semplice che riflettere sulle proprie responsabilità nell’ascesa del populismo.