Quando lo Stato uccide: dieci, cento, mille Cucchi

Di Federico Mazzara – È dello scorso 22 ottobre l’anniversario della morte di Stefano Cucchi, ed è delle ultime ore la notizia di tentativi di insabbiamento sul caso provenienti dai piani alti. I meccanismi dietro a casi nebulosi di malagiustizia sono quasi sempre gli stessi: individui prescindibili per il sistema o divenuti  scomodi, uccisi due volte da una coltre di omertà. Non solo abusi di autorità, come nel caso di Giuseppe Uva, ma depistaggi volontari e archiviazioni affrettate di indagini mai troppo limpide. Di seguito i casi più esemplari.

Giuseppe Uva

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I fatti: 13 Giugno 2009. Giuseppe Uva è di rientro da una serata con un amico, Alberto Biggiogero. In preda ai fumi dell’alcool, scorgendo delle transenne sul ciglio della strada di ritorno, i due le spostano bloccando di fatto il traffico.  È a questo punto che vengono avvistati da una pattuglia dei carabinieri. Uno dei due esce dalla macchina e comincia a inseguire Giuseppe in fuga. L’amico fatica a tenere il passo dei tre. Sopraggiungendo nota i carabinieri che lo scaraventano a terra.

Successivamente, i due uomini vengono fatti salire su due diverse automobili (Uva su quella dei carabinieri, Biggiogero su una volante della polizia arrivata successivamente). Giunti in caserma, Uva e Biggiogero vengono separati: il primo in una stanza, il secondo in sala d’aspetto. A.B. può comunque udire le urla e le richieste d’aiuto provenienti dalla stanza accanto. Decide così di chiamare il 118 e richiedere soccorso.

L’ambulanza non arriverà, anzi, il cellulare di A.B. verrà sequestrato dai carabinieri e sul posto giungerà un medico per proporre il Trattamento Sanitario ad Uva, causa autolesionismo: Uva si sarebbe fatto male da solo sbattendo corpo e testa contro le sedie e la scrivania della stanza. All’alba del 14 giugno, Giuseppe Uva viene ricoverato nel reparto psichiatrico dell’ospedale. Poche ore dopo sarebbe morto.

Le indagini: Dall’inizio delle indagini, passeranno anni di infiniti rinvii, omissioni, irregolarità ed un’inchiesta che produrrà un primo processo per colpa medica. La tesi accusatoria è che i sanitari dell’ospedale avrebbero somministrato a Uva medicinali incompatibili con il suo stato etilico. Da quel processo i tre imputati usciranno assolti con formula piena, mentre i carabinieri e i poliziotti non saranno nemmeno ascoltati, così come il testimone Alberto Biggiogero. Nel processo successivamente intentato contro due carabinieri e sei poliziotti per omicidio preterintenzionale e abuso di autorità, tutti verranno assolti sia in primo grado che in appello a maggio 2018.

David Rossi

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I fatti: 2013. Sede della Monte Paschi a Siena. Intorno alle ore 20 del 6 marzo, dopo aver avvisato la moglie del suo imminente rientro a casa, David Rossi, allora capo della comunicazione di MPS,  viene trovato morto nel vicolo sotto la finestra del suo ufficio. In quel periodo Rossi, aveva ricevuto delle pressioni sull’inchiesta contro presunte irregolarità nell’acquisizione di Banca Antonveneta da parte di MPS,  e avendo tante informazioni, avrebbe voluto parlare con i magistrati.

Le indagini: il caso è stato aperto e archiviato più volte, coclusosi sempre con un nulla di fatto. La prima, archiviata nel 2014, liquida il fatto senza un attento esame delle prove. Elemento che viene a galla nella seconda indagine, rendendo evidenti  tutte le falle, le carenze e i buchi della prima indagine. Tante le incongruenze nella prima indagine condotta. 

Reperti spariti o addirittura distrutti dagli stessi magistrati prima ancora di analizzarli, elementi fondamentali come tabulati e video registrati dalle 12 telecamere mai acquisiti, persone presenti in Mps non convocate né sentite, analisi scientifiche nell’ufficio e nel vicolo dove è stato trovato il cadavere mai effettuate. Fazzolettini sporchi di sangue presenti nel suo ufficio (quindi prima della caduta), bruciati. Persino l’unico filmato presente è stato prima smarrito e poi ritrovato. In più, le ferite rinvenute sul corpo di Rossi, non sembrano congruenti con la dinamica dell’impatto.

Il secondo filone di indagini viene condotto in maniera zelante, tanto da indurre alla richiesta di una proroga per le indagini. Dopo qualche tempo però, il magistrato a capo dell’inchiesta Andrea Boni, riceve la comunicazione del suo trasferimento, ad appena un anno dal suo arrivo a Siena. Un anno fa, il punto al momento esclamativo sul caso: la richiesta di archiviare l’inchiesta per istigazione al suicidio viene accolta.

Denis Bergamini

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I fatti: Una delle storie più controverse per la giustizia italiana, i cui epiloghi provvisori non hanno mai convinto sino in fondo e che ora potrebbe giungere a soluzione definitiva. Denis Bergamini, era un calciatore del Cosenza, morto “suicida”, o suicidato (espressione usata in un libro di Carlo Petrini sul caso), il 18 novembre del 1989.

Quella sera Denis si trova alla guida sulla statale Jonica 106 a Roseto Capo Spulico. Ha abbandonato il ritiro nel pomeriggio, scosso da una misteriosa telefonata. Si reca a casa dell’allora fidanzata Isabella Internò, autrice anche del resto della ricostruzione, che racconta del calciatore sconvolto. Denis la implora di accompagnarlo verso Taranto, per imbarcarsi e lasciare l’Italia.

Il perché della necessità è un mistero. La fidanzata sembrava volesse farlo desistere, così Denis ferma la macchina e minaccia di proseguire in autostop. È a quel punto che viene travolto da un autocarro Fiat 180. Secondo il racconto, è il calciatore a gettarsi tra le ruote del camion e a venire trascinato per 60 metri sull’asfalto. La versione che emerge sin da subito convince poco.

Molte cose non quadrano, prima tra tutte la causa del suicidio.  Nonostante la pioggia e le pozzanghere, il corpo non era sporco di fango. L’unico segno rinvenuto è stato un livido alla tempia, come se prima fosse stato colpito e stordito.

Le indagini: Da allora l’inchiesta è stata archiviata e riaperta tre volte. La prima, immediatamente successiva alla tragedia, stabilisce che si è trattato di suicidio e assolve Raffaele Pisano, guidatore del camion  dall’accusa di omicidio colposo. Ventidue anni dopo, nel 2011, vengono indagati l’ex fidanzata Isabella Internò, con l’accusa di concorso in omicidio, e Raffaele Pisano, per favoreggiamento.

All’appuntamento coi Pm, però, Isabella Internò non si presenta (gli avvocati al suo posto) e Raffaele Pisano decide di avvalersi della facoltà di non rispondere. In mancanza di riscontri, viene disposta l’archiviazione data l’insufficienza di prove e la conseguente infondatezza del possibile omicidio. Nel 2017, il caso è stato riaperto, con la richiesta di riesumare il cadavere. Da lì è emerso che il corpo è stato soffocato e poi gettato contro il camion. Indagati sempre gli stessi, più il marito della Internò. Per le indagini è stata richiesta una recente proroga. Entro fine anno uno dei casi più estenuanti di sempre potrebbe giungere a risoluzione.

Cucchi, UvaRossi e Bergamini, ma ancora AldrovandiMagherini, Bifolco, Bianzino, Guerra, Cabiddu, non sono un caso. Si inseriscono in un quadro di impunità che uccide due volte. La mancanza di un reato di tortura applicabile e i casi di tortura rimasti impuniti, macchiano di sangue e vergogna uno Stato e la sua democrazia.


 

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