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Caso Aldrovandi: 15 anni da quando «è stato morto» Federico

A 15 anni dalla morte di Federico Aldrovandi, noi lo ricordiamo, e insieme a lui tutte le vittime degli abusi di potere che negli anni hanno segnato le pagine di cronaca nera del nostro Paese. 


Sono passati 15 anni da quel lontano 25 settembre 2005, giorno in cui la vita di Federico Aldrovandi si è spezzata per sempre. Quella notte del 25 settembre Federico si fa lasciare dagli amici in una via vicino casa, a Ferrara, per tornare a piedi dopo aver trascorso la serata in un pub di Bologna; durante la nottata Federico ha assunto, in modesta quantità, sostanze stupefacenti e alcool, ma a fine serata – come affermeranno alcuni testimoni – appariva comunque tranquillo. Nei pressi di via Ippodromo circolava, in quegli stessi minuti, una pattuglia della Polizia con a bordo Enzo Pontani e Luca Pollastri. L’incontro tra questi e Federico Aldrovandi non resterà privo di conseguenze.

Gli agenti di Polizia descriveranno l’Aldrovandi come un «invasato violento in evidente stato di agitazione», sosterranno di «essere stati aggrediti dallo stesso a colpi di karate e senza un motivo apparente» ed è per questo motivo che chiedono i rinforzi. Dopo poco tempo dalla richiesta dei due poliziotti, arriva in aiuto un’altra volante con a bordo altri due agenti. Lo scontro tra i quattro poliziotti e il giovane diventa molto violento, al punto che durante la colluttazione due dei quattro manganelli in possesso delle Forze dell’Ordine si spezzano. 

Si arriverà fino alla morte di Federico Aldrovandi, sopraggiunta per “asfissia da posizione”, con il torace schiacciato sull’asfalto dalle ginocchia dei poliziotti. Quella notte è molto lunga e anche i soccorsi vengono chiamati in ritardo; infatti, all’arrivo, il personale del 118 trova Federico «riverso a terra, prono con le mani ammanettate dietro la schiena, incosciente, nessun cenno di risposta».

Dopo numerosi tentativi di rianimazione, l’intervento si conclude con la constatazione sul posto della morte del giovane per «arresto cardio-respiratorio e trauma cranico-facciale». I genitori, che intanto cercano di rintracciarlo chiamandolo al cellulare e provando a contattare ospedali e questura, vengono avvisati della scomparsa di Federico solo alle 11 del mattino, ovvero cinque ore dopo quel che è accaduto. 

Sin da subito la versione ufficiale è che Aldrovandi è morto a causa di un malore; una ricostruzione che però non convince i genitori del ragazzo, soprattutto perché su tutto il suo corpo sono state rinvenute 54 tra lesioni ed ecchimosi.

Il 2 gennaio del 2006, giorno in cui la mamma di Federico apre un blog per far conoscere a tutti la storia del figlio, inizia a intravedersi una luce in fondo al tunnel. Si parla tanto del caso di Federico Aldrovandi e della sua storia, fino ad arrivare alla Camera dei Deputati, in cui si procede anche con un’interrogazione al ministro per i Rapporti con il Parlamento, Carlo Giovanardi, che però conferma la versione della questura.

A marzo del 2006 i nomi dei quattro agenti intervenuti la mattina del 25 settembre in via Ippodromo (Monica Segatto, Paolo Forlani, Enzo Pontani e Luca Pollastri) vengono iscritti sul registro degli indagati con l’accusa di omicidio colposo. Ad aggravare la posizione dei poliziotti, la testimonianza davanti ai magistrati di una donna originaria del Camerun che abita nella zona in cui Federico ha perso la vita, che racconta di aver assistito ad alcune fasi dello scontro e chiama direttamente in causa le responsabilità degli agenti.

A ottobre del 2007 si tiene la prima udienza e durante il processo, grazie a  un susseguirsi di testimonianze, emergono nuovi elementi. Si scopre, per esempio, che il Pm non aveva fatto alcun sopralluogo in via Ippodromo (la via in cui Aldrovandi ha perso la vita); si scopre anche che l’auto della Polizia contro la quale, secondo la questura, Federico si sarebbe ferito da solo alla testa, non era stata sequestrata, così come i manganelli, di cui due rotti, e che il nastro con le comunicazioni tra la centrale e la pattuglia presente intervenuta era stato messo a disposizione della Procura solo molto tempo dopo i fatti.

Nella vicenda è determinante il contributo del Professor Gustavo Thiene dell’Università di Padova, secondo cui la morte di Aldrovandi era stata causata da una asfissia per compressione toracica. Nel luglio del 2009 arriva la sentenza di primo grado che condanna per omicidio colposo a tre anni e mezzo di carcere  i quattro poliziotti imputati per «eccesso colposo nell’uso legittimo delle armi», giudizio che nel 2011 viene anche confermato presso la Corte d’Appello di Bologna; nel giugno del 2012, la Corte di Cassazione rende definitiva la sentenza.

Per i magistrati Federico Aldrovandi è morto «per il trauma a torace chiuso», provocato dalle «percosse da schiacciamento quando era già ammanettato». Il tutto con la «cooperazione colposa per via della comune scelta di azione, della consapevolezza di agire insieme che avrebbe imposto di controllare anche quello che facevano i colleghi e di regolarlo. Invece gli agenti hanno trasceso colposamente i limiti consentiti al loro intervento».

Sono storie di abuso a cui non ci si abitua mai. Vi ricordate Stefano Gugliotta, Giuseppe Uva, Stefano Cucchi: queste, insieme a Federico, sono le rappresentazioni più note dell’abuso di potere nel nostro Paese. Quanti Federico, Stefano, Giuseppe ci devono ancora essere? Sebbene tutte le vicende abbiano dinamiche diverse, tutte ci segnalano un clima innegabile all’interno delle Forze dell’Ordine e che va verso un uso non controllato della forza. Ecco perché dobbiamo usare tutti gli strumenti della democrazia per opporci a un abisso che ci sta avvicinando a un passato che speravamo tramontato.

La storia ce lo ha insegnato: non si è mai troppo attenti alla difesa della garanzie democratiche; ogni cedimento di fronte alla difesa di un diritto determina un abuso maggiore che alla fine incide irreversibilmente sulle regole della democrazia. Questa è la storia di Federico, un ragazzo che è stato morto (come recita il titolo della pellicola di Vendemmiati del 2010) da chi invece doveva difenderlo.


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Paolazzurra Polizzotto

Scrivere per me è stata una passione inaspettata, un dono tutto da scoprire. La mia missione è quella di dare una “voce” a chi crede di averla persa.

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