Datagate, scandalo di furbacchioni: l’utente, il social network e l’istituto

Di Marco Cerniglia – Internet. Una nuova frontiera in stile Far West, incontrollata, selvaggia, dove la legge ancora fatica a mantenere un controllo concreto. Ma, nonostante ciò, milioni di persone hanno diffuso “in qualche modo” molte delle loro informazioni personali all’interno di questo sistema, non curandosi davvero di conoscere gli interessi dei cowboy che le avrebbero raccolte e radunate. Sembra dunque logico che non si abbia alcuna certezza su dove queste informazioni possano andare a finire. E proprio per un caso di questo tipo, oggi, Facebook, il social network noto a tutti, si trova al centro di una vera tempesta mediatica, dovuta al caso legato all’istituto di ricerca Cambridge Analytica.

Fondato nel 2013 da Robert Mercer, imprenditore americano fortemente conservatore, e finanziatore anche del sito d’informazione Breitbart News, diretto da Steve Bannon, che è stato consigliere di Donald Trump durante e dopo la campagna elettorale.

La storia è venuta a galla di recente, attraverso inchieste parallele portate avanti dal New York Times e dal Guardian, e dimostra come una quantità immensa di dati sia stata accumulata e sfruttata da questo istituto attraverso Facebook. Con l’utilizzo di un’applicazione creata dal ricercatore di Cambridge Aleksandr Kogan, chiamata This is your digital life, la quale richiedeva accesso al profilo dell’utente sul social network, venivano accumulati dati sul profilo dell’utente che autorizzava questo accesso. E fino a qui, tutto lecito, anche le condizioni d’uso di Facebook che sottoscriviamo (quasi sempre senza neppure leggerle) permettono questa pratica, seppur sgradevole.

Il problema è subentrato dopo, nella cessione a terze parti, effettuata da Cambridge Analytica, non solo dei dati degli utenti che si registravano all’app, ma anche dei loro amici, in maniera inconsapevole, fino a quando Facebook stesso non ritenne la raccolta di dati sui soggetti correlati troppo invasiva. Tuttavia, Kogan riuscì con la sua app a completare ben 50 milioni di profili, con le più variegate informazioni sui vari soggetti; da quanto viene scritto e postato sui loro profili, ai tempi e alla frequenza di connessione, alle interazioni in quell’arco di tempo, una serie di tracce insomma che creerebbero un quadro ben completo e  nitido della persona analizzata.

Una delle “punizioni” per questo tipo di comportamento prevede la sospensione del profilo in questione. Ma, secondo le interviste effettuate, Facebook sarebbe stata al corrente delle operazioni di Cambridge Analytica dal 2015, anche a seguito di una sorta di autodenuncia riguardo il passato possesso di dati ritenuti illegali, poi distrutti. Eppure il profilo dell’istituto sarebbe stato sospeso il 16 Marzo dell’anno corrente, e solo dopo aver scoperto l’imminente uscita degli articoli del New York Times e del Guardian.

I vertici di Facebook provano a difendersi accusando Kogan e la sua applicazione di imbroglio, ma la posizione del social network è molto ambigua: secondo Chris Wylie, ex dipendente di Cambridge Analytica e fonte del Guardian su questa vicenda, l’azienda sarebbe stata al corrente di questa pratica e avrebbe cercato di insabbiare la cosa, anche per motivi politici. Buona parte delle informazioni trattate dall’istituto, infatti, sarebbe stata utilizzata per toccare psicologicamente i demoni interiori di tantissime persone con notizie mirate, diffuse da bot e account fasulli, influenzando quindi le campagne politiche di molte nazioni, da quelle africane – politicamente instabili – a quelle americane; ricordiamo che Bannon, il vicepresidente di Cambridge Analytica, è stato consigliere di Trump, e avrebbe fatto riferimento ai dati dell’istituto per diffondere notizie false su Hillary Clinton.

Anche l’Italia non ne sarebbe immune, dato che si fanno riferimenti a un partito che, dopo il crollo negli anni ’80, avrebbe usato queste informazioni per “rimettersi in gioco”, per così dire.

Intanto, è iniziata una guerra contro Facebook: oltre al crollo delle azioni in borsa, numerose class action sono partite contro Zuckerberg e la sua azienda, e seguendo l’hashtag #deletefacebook, lanciato dall’ex proprietario di Whatsapp Brian Acton, Elon Musk avrebbe cancellato tutti gli account associati alle sue attività economiche (“What’s Facebook?”, risponde con un tweet ironico proprio ad Acton). Jason Calacanis, pioniere della comunicazione in Rete, blogger e imprenditore, ha addirittura lanciato una sfida per creare un nuovo social, con un budget di centomila dollari. Una sfida che seguiremo con interesse, per tante ragioni.


 

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