La Turchia che si arma e che si ama

Avviate le procedure da parte del ministero della Difesa turco per l’acquisto dei 24 jet F-35 della Lockheed Martin. L’operazione era stata già annunciata ai primi di novembre. In quei giorni il ministro della Difesa Fikri Isik ne aveva confermato l’avvio e a seguire anche il sottosegretario per le industrie della Difesa aveva deciso di ordinare un ulteriore gruppo di veicoli, importante qui il ruolo del presidente del Comitato esecutivo dell’industria della Difesa occupato dal capo di stato Recep Erdogan. Si tratta infatti della seconda tranche dei 116 Joint Strike Fighter (anche se alcuni parlano di 100) che la Turchia si è impegnata ad acquistare nel 2014.

Secondo il quotidiano Hurriyet, l’esecuzione del contratto con la casa produttrice americana, la Lockheed Martin, comincerà il prossimo anno. Il primo F-35 dovrebbe essere consegnato nel 2018. Entro il 2023, la Turchia dovrebbe mettere in servizio una nuova flotta da caccia e supporto tattico. Preparazione necessaria e fondamentale in un’ottica di ridisegno dei confini, come da tempo dichiarato dallo stesso presidente Erdogan.

Indimenticabili sono le nostalgie – di fatto dichiarazioni pubbliche e ad alto contenuto provocatorio del Sultano – sui territori ottomani perduti (l’Impero manca a tutti!), sulle isole ingiustamente lasciate alla Grecia e sulle città di Mosul e Kirkuk antichi limiti del territorio turco – ed ora più che mai terra di caos e di “conquista”. In un recente discorso Erdogan, come riportato dal New York Times, ha rivendicato il ruolo della Turchia nello scacchiere iracheno e in particolare ha dichiarato: “Noi abbiamo una responsabilità nella regione” riferendosi all’area di Mosul. Lanciando la sfida al Governo iracheno ha continuato: “Se vogliamo essere entrambi al tavolo delle trattative e sul campo di battaglia, c’è una ragione”. La risposta del primo ministro iracheno Al-abadi non aveva fatto sconti a nessuno minacciando di fatto uno scontro militare (difendendolo come “dignità dell’Iraq”) con la Turchia perché ciò di cui si sta parlando “non è certo un picnic”.

Questo orgoglio turco, questo amore per la grandezza – che rinvigorisce l’intenzione di trasformarla in un sistema presidenziale sotto un comando ancora più autoritario – negli ultimi anni, e in maniera sempre maggiore, sta pizzicando un po’ tutti quelli che sono i vicini della terra del Sultano. Ma è un altro il passaggio appetitoso per la politica di boundary per Erdogan: il salto dal toccare a ritoccare.

Daniele Monteleone


 

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