Kafala, il sistema di sfruttamento dei lavoratori domestici in Libano

La grave crisi pandemica, l’instabilità politica e la recessione economica continuano ad esasperare la già precaria condizione delle lavoratrici domestiche migranti in Libano.


Risale a qualche settimana fa il video diventato virale nei Paesi del Vicino Oriente che ritrae le violenze subite da una lavoratrice straniera che, in preda al terrore e alle disperate grida d’aiuto, viene dapprima strattonata e trascinata per strada e poi picchiata dal suo datore di lavoro, sotto gli occhi increduli dei vicini e dei passanti.

Il fatto, accaduto in una cittadina del centro del Libano, non è passato inosservato malgrado l’infruttuoso tentativo del sindaco che, tramite un tweet, ha provato a minimizzare e giustificare l’inaudita violenza subita dalla donna, ritenuta responsabile di aver tentato la fuga dalla casa presso cui avrebbe dovuto prestare servizio. 

I media locali hanno fatto sapere che l’uomo, inizialmente arrestato, è stato poi rilasciato allorché la lavoratrice ha deciso di non sporgere alcuna denuncia e ha negato di aver subito dei maltrattamenti. Eppure, la reazione degli attivisti, impegnati in prima linea nella lotta al sistema della kafala, non si è fatta attendere. Questi ultimi hanno nuovamente riportato al centro del dibattito pubblico l’urgenza di adottare delle adeguate garanzie di protezione del lavoro domestico di migliaia di migranti, esposti a condizioni di lavoro disumane e irragionevoli. 

Kafala, la disumanizzazione del lavoro domestico 

L’aggressione documentata dal video rappresenta la punta dell’iceberg di un fenomeno di “sfruttamento formalizzato”, meglio conosciuto come kafala o, altresì, sponsorship. Questo fenomeno è particolarmente diffuso e radicato nei Paesi del Medio Oriente, in particolare in quelli dell’area del Golfo, in Giordania e Libano.

La kafala è un sistema di reclutamento di manodopera immigrata da impiegare per lo più nei settori della pastorizia, dell’agricoltura e del lavoro domestico, in assenza di qualsivoglia strumento di tutela e garanzia dei più elementari diritti umani: assenza del giorno di riposo, inesistenza di un salario minimo, divieto di associazione, sequestro del permesso di soggiorno e dei documenti identificativi dei lavoratori migranti, nonché il ricorso a ripetute forme di violenza fisica e psicologica, sono solo alcuni dei trattamenti degradanti e disumanizzanti che i lavoratori domestici migranti sono costretti a subire, tanto che sovente si ricorre al termine “schiavitù moderna” per descrivere la portata del fenomeno.

In particolare, il sistema della kafala prevede il coinvolgimento di tre diverse categorie di soggetti: gli sponsor ossia i datori di lavoro interessati all’assunzione di manodopera a basso costo, i lavoratori migranti e le agenzie di lavoro temporaneo che agiscono da intermediari, agevolando l’incontro tra domanda e offerta di lavoro. Una volta selezionati e assunti, i lavoratori domestici iniziano a dipendere quasi completamente dal datore di lavoro, il quale funge da garante per il loro regolare soggiorno.

Questo sistema permette al datore di lavoro di assumere il controllo pressoché totale della vita dei lavoratori migranti, rendendo questi ultimi particolarmente vulnerabili a forme di sfruttamento e abusi di varia natura con conseguenze drammatiche. Non sono rari, infatti, gli episodi di suicidio tra i lavoratori domestici migranti o le conseguenze tragiche in cui incorrono nel tentativo di fuggire dai loro datori di lavoro.

La grave crisi economica in cui il Libano è precipitato, l’instabilità politica e la situazione pandemica hanno gravemente peggiorato la condizione dei lavoratori domestici migranti, aumentando per gli stessi il rischio di incorrere in gravi forme di lavoro forzato. Da un lato, la pandemia ha costretto le famiglie a restare in casa per lunghi periodi e, conseguentemente, questo ha portato a un maggior carico di lavoro per i lavoratori domestici con turni estenuanti e, in molti casi, privi perfino del giorno di riposo.

Dall’altro lato, i datori di lavoro hanno cercato di spostare sui lavoratori domestici il peso della crisi economica abbattendo i loro salari o, addirittura, negandoli del tutto. Infatti, durante le prime fasi della pandemia, circa il 72% delle lavoratrici migranti assistite dall’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni ha riportato di essere stata privata del salario.

La pandemia e la crisi economica hanno, inoltre, comportato per i lavoratori domestici migranti l’impossibilità di ritornare nei Paesi di origine, la perdita di opportunità di lavoro così come la difficoltà di accedere alle cure mediche.

La dimensione di genere nello sfruttamento dei lavoratori domestici 

Tra i lavoratori domestici migranti, le donne, in quanto tali, rappresentano la categoria maggiormente esposta a sfruttamento, abusi e violenze di ogni tipo. Del resto, esse rappresentano il 99% dei lavoratori domestici che raggiungono il Libano. Spinte dalla voglia di lasciarsi alle spalle società fortemente maschiliste e patriarcali nei Paesi di origine, o dalla necessità di garantire delle entrate economiche alle loro famiglie, le donne finiscono per restare intrappolate in un sistema di ingiustizie da cui diventa quasi impossibile scappare.

Discriminazioni salariali e violenza di genere contraddistinguono, infatti, la vita quotidiana delle lavoratrici domestiche migranti. In particolare, le discriminazioni salariali sono esacerbate dall’intersezionalità di genere, classe, razza e nazionalità. Di solito, tali discriminazioni dipendono da una svalutazione sessista del lavoro domestico. Non a caso, i loro salari sono più bassi di quelli dei colleghi uomini. E ancora, le lavoratrici provenienti dalle Filippine guadagnano in genere di più di quelle che provengono dal Bangladesh. 

Sebbene non ci siano delle leggi che lo vietino espressamente, alle lavoratrici domestiche non sono riconosciuti gli stessi diritti delle donne libanesi neppure in relazione al matrimonio e alla maternità. Di norma, infatti, prima e dopo l’arrivo in Libano è richiesto alle stesse di effettuare un test di gravidanza e nel caso di esito positivo, è impedito a queste ultime di restare. Nel caso di gravidanza intervenuta durante l’esecuzione del contratto di lavoro, invece, la donna viene licenziata e costretta a lasciare il Paese o, in talune circostanze, è obbligata a praticare aborti illegalmente. Quest’ultimo caso ricorre frequentemente a seguito di stupri.

Le lavoratrici domestiche migranti sono, infatti, preda di continue forme di violenze: sessuale, psicologica, economica, verbale e, non di rado, sono costrette alla prostituzione. Gli autori di simili abusi sono i datori di lavoro, i membri delle agenzie del lavoro, altri lavoratori migranti e, nell’ambito degli abusi nella sfera domestica, perfino le datrici di lavoro. 

Raramente le lavoratrici cercano o ricevono giustizia per le violenze di cui sono vittime. In primo luogo, nonostante i recenti tentativi di ampliare la nozione di famiglia fino a includere anche i lavoratori domestici, la legge contro la violenza domestica continua a negare tutela alle lavoratrici migranti. In secondo luogo, in virtù della quasi totale dipendenza dagli sponsors, qualsiasi tentativo di procedere contro i datori di lavoro si risolverebbe nella perdita del lavoro e dello status acquisito.

Infine, sebbene le lavoratrici abbiano il diritto di concludere il contratto di lavoro se vittime di violenze da parte del datore di lavoro, nella pratica le cose seguono un corso diverso. Infatti, non esiste alcun meccanismo che permetta alla lavoratrice di richiedere la risoluzione del contratto e, nella maggior parte dei casi, i contratti di lavoro sono tradotti in una lingua a loro sconosciuta. Pertanto, le stesse non sono in grado di conoscere i diritti che spettano loro né tantomeno le condizioni di lavoro che sottoscrivono.  

La mancanza di tutela legale per le lavoratrici domestiche 

Sebbene le numerose e ripetute campagne condotte in seno alla società civile, qualsiasi tentativo di abolizione del sistema della kafala da parte delle autorità si è concluso in un vero fallimento poiché questo sistema di sfruttamento legalizzato è considerato un business piuttosto profittevole. A ciò si aggiunge la mancanza di una regolamentazione legale del lavoro domestico. Infatti, stante l’articolo 7 della Legge Libanese sul Lavoro,  i lavoratori domestici sono espressamente esclusi dallo scopo di applicazione delle Legge nazionale sul Lavoro che garantisce e offre tutele minime in materia di lavoro quali un salario minimo, la puntuale regolamentazione dell’orario di lavoro, il diritto a ferie annuali.

Un’incoraggiante inversione di tendenza si è registrata a partire dal 4 settembre 2020, quando il Ministro del lavoro libanese ha adottato un nuovo contratto standard per il lavoro domestico con il quale venivano riconosciuti ai lavoratori domestici migranti diritti fondamentali, quali la libertà di movimento e di comunicazione, ferie annuali, il diritto alla malattia retribuita, lavoro straordinario regolarmente retribuito, limiti all’orario di lavoro e il diritto a conservare i propri documenti di identificazione.

Nonostante questi timidi cambiamenti, l’abolizione del sistema della kafala resta un obiettivo ancora lontano da raggiungere, come testimonia la decisione della Suprema Corte amministrativa in Libano che, accogliendo il ricorso delle agenzie del lavoro temporanee, ha sospeso l’applicazione del contratto standard. 

Obiettivo che potrà essere raggiunto solo combinando la puntuale implementazione delle garanzie minime dei lavoratori domestici migranti con una massiccia opera di sensibilizzazione e di informazione da condurre tanto in Libano quanto nei Paesi di origine dei migranti e delle migranti, affinché siano sufficientemente informati circa l’esistenza del sistema della kafala e dei rischi a cui andranno incontro, dal momento che le agenzie di lavoro ingaggiano con l’inganno i lavoratori domestici nei loro Paesi di origine, giovandosi della disinformazione e della costrizione.