Emergenza o stato di guerra? I rischi per le libertà fondamentali
Che la fine della pandemia possa costringerci, tra le altre cose, ad una resa dei conti con il dilagare di derive autoritarie è ormai convinzione di molti. Nelle ultime settimane, diversi analisti hanno rilevato come, per arginare la diffusione del Coronavirus, i governi del mondo stiano sempre più spesso associando all’emergenza sanitaria il lessico e gli strumenti propri di una situazione di conflitto armato, con l’adozione di misure straordinarie che rischiano di incidere profondamente sulle garanzie degli individui. Mentre Macron si dichiara «in guerra contro un nemico invisibile» ed Orbàn ottiene pieni poteri, la gestione dell’emergenza sanitaria in Italia solleva non poche perplessità sulla legittimità delle misure eccezionali adottate dal governo.
Con il D.L. 18/2020, il cosiddetto “Cura Italia”, gran parte dei poteri si sono concentrati nelle mani dell’esecutivo del Premier Conte. Se a ciò si aggiunge che i cittadini stanno progressivamente familiarizzando con la presenza dell’esercito nelle strade e l’idea di una sorveglianza digitale dei dati personali, appare sempre meno infondato il sospetto che, in nome della sicurezza nazionale, il governo italiano possa in qualche modo autorizzare una restrizione delle libertà fondamentali oltre i limiti consentiti dalla Costituzione. Ma davvero la pandemia potrebbe costarci così cara in termini di garanzie personali?
Secondo Alfredo Terrasi, Professore di Diritto Internazionale presso l’Università degli Studi di Palermo, «lo stato di emergenza comporta fisiologicamente una restrizione dei diritti. La compressione delle libertà fondamentali che gli italiani stanno subendo, dalla libertà di circolazione e di riunione fino alla libertà di iniziativa economica, passando per il diritto alla vita privata, garantito dall’articolo 8 CEDU e da intendersi dinamicamente anche come diritto alla vita sociale, è giustificata da una situazione di necessità e di urgenza che consente l’adozione di soluzioni straordinarie, con meccanismi comunque capaci di garantire la legalità. La pandemia da Covid-19 è senza dubbio una situazione eccezionale che richiede l’emanazione di misure idonee a tutelare la salute pubblica. La nostra stessa Costituzione, all’articolo 16, ammette che la libertà di circolazione possa essere limitata per motivi di sanità. Pur scegliendo di non disciplinare specificamente lo Stato di emergenza all’interno della Carta Costituzionale, i nostri Padri costituenti avevano dunque ben chiara la possibilità del verificarsi di eventi di tal genere, tanto da regolarne limiti e garantire in ogni caso la supervisione del Parlamento. Proprio in funzione di ciò, dal mio punto di vista, il problema della gestione dell’emergenza italiana è di carattere tecnico-giuridico e riposa nella scelta degli strumenti normativi, (i Decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri, ndr), attraverso i quali si sta tentando di delimitare la diffusione dell’epidemia e le conseguenze che ne derivano. Se è vero che la tutela della salute pubblica può giustificare la restrizione di alcuni diritti fondamentali, ciò non toglie che le misure limitative delle libertà dovrebbero essere adottate con legge o, quanto meno, con un atto come il decreto legge che consente, attraverso il vaglio del Parlamento, di rispettare pienamente l’assetto democratico previsto dal nostro sistema costituzionale».
Il Decreto “Cura Italia” delega genericamente al Presidente del Consiglio il potere di attuare ogni misura “adeguata e proporzionata” allo sviluppo dell’epidemia. Con l’utilizzo sempre più incisivo dei DPCM, continua Terrasi, «il rischio potrebbe essere quello dell’espansione assoluta del diritto alla salute, a discapito delle altre libertà. Da giurista, ritengo che il diritto alla salute non possa prevalere su tutto: i diritti vanno bilanciati e gli interventi, di conseguenza, richiedono un bilanciamento implicito degli interessi in gioco. Neppure l’emergenza sanitaria giustificherebbe, del resto, una generica restrizione delle libertà fondamentali, specie se si considerano i presupposti e la disciplina stessa dello stato d’emergenza. Dal punto di vista internazionalistico, infatti, avendo ratificato la Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, l’Italia dovrebbe comunicare al Consiglio d’Europa la deroga prevista dall’articolo 15 nel caso di stato d’urgenza, tenendo conto sia dalla “temporaneità” delle misure adottate che dei parametri della “ragionevolezza” e della “proporzionalità”, così come delineati dalla Corte europea dei diritti umani nella sentenza Lawless c. Irlanda del 1961. A mio avviso comunque – considerato che il governo italiano ha dichiarato l’emergenza sanitaria per la durata di sei mesi e che comunque i provvedimenti adottati non parrebbero incidere su diritti inderogabili –malgrado l’inidoneità dei DPCM a garantire il pieno assetto democratico, è in atto un abuso meramente contingente di alcuni strumenti normativi che non dovrebbe dare adito ad una violazione sistematica dei diritti dei cittadini».
Quanto all’impiego della forza militare e al tracciamento dei dati personali, «sebbene occorra comunque rimanere in allerta, il sistema costituzionale italiano ha in sé gli anticorpi per scongiurare una deriva autoritaria. Aldilà dei recenti accessi parafascisti, – sottolinea ancora Terrasi – l’Italia vanta una storia costituzionale intrisa dei valori liberal-democratici per cui lo schieramento dell’esercito così come la mappatura dei dati personali non dovrebbero avere ricadute in termini di crisi dei processi democratici. Il tracciamento digitale, poi, avrebbe come unico scopo quello di monitorare i contagi al fine di prevenire la diffusione del virus. La mappatura prospettata dal cosiddetto “modello Corea” non andrebbe infatti ad imporsi come meccanismo di intercettazione di massa – incompatibile, secondo quanto chiarito dalla Corte di Giustizia nel caso Digital Rights Ireland, con l’ordinamento giuridico dell’Unione europea – ma verrebbe piuttosto predisposto quale strumento specifico e limitato a finalità di tutela della salute pubblica. Con queste garanzie, non sarebbe prospettabile una specifica violazione del GDPR, il Regolamento europeo sulla protezione dei dati, che pure prevede la possibilità di comprimere il diritto alla privacy in situazioni particolari. Così inteso, dunque, il tracciamento digitale dei dati non creerebbe particolari problemi, a maggior ragione se si considera che l’UE è in grado di garantire un’area di liceità e di sicurezza nel trattamento dei dati personali che, sebbene ancora con alcuni limiti, non ha attualmente eguali. Insomma, se all’indomani dell’11 Settembre, agli americani è stato chiesto di rinunciare alla libertà in nome della sicurezza, non credo che, al termine della pandemia, sia possibile chiedere altrettanto agli italiani e, in generale, agli europei. Checché se ne dica, la tradizione democratica resta il nostro più grande baluardo. È da essa che dobbiamo ripartire».