Storia e cultura sulle tavole imbandite di dicembre


Di Antonino Sisino – Che sia la ricorrenza dell’Avvento e la nascita di Gesù Cristo o semplicemente un periodo dell’anno di luci, di regali e di alberi addobbati a tema natalizio, il mese di dicembre è simbolo di festa, gioia, vacanza e ricongiungimento familiare. È necessario fare una passeggiata per le vie del centro città per sentire l’aria festosa che circonda ogni persona, ancor di più la si percepisce coi profumi e i sapori nelle tavole apparecchiate da ogni siciliano. Dalla regina dei primi piatti, la pasta al forno, all’intramontabile baccalà fritto, dal classico panettone milanese al torrone a pasta morbida; due dolci tipici in particolare non mancano mai a tavola: la cuccìa e i cucciddati.

Il 13 dicembre si festeggia la ricorrenza religiosa di Santa Lucia, martire vissuta tra III e IV secolo d.C., uccisa durante una delle più atroci persecuzioni dei cristiani per opera dell’imperatore Diocleziano (303 d.C.). Il presbitero e archeologo Giuseppe Maria Capodieci (1749-1828) racconta nei sui scritti di un periodo (1763 circa) di grande carestia che afflisse i raccolti di grano a Siracusa. Egli esortò il popolo a pregare Santa Lucia – nonché santa patrona della città ancora oggi – affinché mandasse un segno; il giorno dopo arrivarono tre vascelli carichi di grano dall’Oriente e le persone, allo stremo delle forze, preferirono bollire i chicchi per poterli mangiare il più velocemente possibile: divenne in seguito un dolce tipico della tradizione povera siciliana che prese il nome di cuccìa, ovvero un piatto a base di chicchi di grano, accompagnati con ricotta, cannella e la tipica zuccata.

Cuccìa, Antica Focacceria San Francesco

Sebbene la cuccìa non venga mangiata più solo per la ricorrenza, durante tutto il 13 dicembre le persone non preparano o consumano portate a base di farinacei; a tal proposito è consuetudine trovare nelle cucine siciliane pietanze a base di riso, patate o di altre farine, come la classica arancina o le panelle.

Il cucciddatu (“buccellato” in italiano) invece, lo si riconosce facilmente dalla sua tipica forma rotonda e viene degustato al termine dei lunghi pranzi natalizi. I riferimenti storici sono molteplici, alcuni risalenti agli antichi Romani. Gli studiosi, infatti, affermano che i Romani usavano un tipo di pane dolce porzionato in piccole fette per sfamare i soldati, chiamato buccellatum (bocca); si può trovare un altro riferimento etimologico nella parola “buccina”, la tomba ricurva utilizzata dai legionari romani. Lo storico e letterato Scipione Ammirato (1531-1600), nel suo scritto risalente al XVI secolo “Delle famiglie nobili napoletane”, lo descrive così: «nella patria mia e nei luoghi vicini a lei, chiamasi buccellati sorta di pane (…) in modo d’una ruota attorno ed aperto nel mezzo per sembrare un cerchio».

Buccellato

Mangiare un cucciddatu significa assaporare un vero e proprio dolce, degno della più alta pasticceria locale: pasta frolla friabile preparata con farina, zucchero, strutto, latte, due uova e un cucchiaino di miele. La farcitura è una pasta morbida che si ottiene tritando i fichi secchi con scorze di arancia, uva passa e, facoltativamente, pezzetti di cioccolato fondente. «È una storia d’amore la cucina. Bisogna innamorarsi dei prodotti e poi delle persone che li cucinano» dice lo chef francese Alain Ducasse.