Shawkan e la libertà di espressione in Egitto: cinque anni di detenzione e torture

Di Valentina Pizzuto Antinoro – In seguito al colpo di Stato che ha portato all’instaurazione del regime autoritario di Al-sisi nel giugno 2013, migliaia di sostenitori dei Fratelli musulmani si riunirono e occuparono piazza Rabi’a al-Adawiya (Cairo) per manifestare contro l’estromissione dell’ormai ex presidente Mohamed Morsi. Nei due mesi successivi l’episodio, si alternarono sit-in pacifici e attacchi terroristici rivendicati dai Fratelli Musulmani, con l’intento di dimostrare il loro totale rifiuto a qualsiasi forma di mediazione con Al-sisi, colpevole di aver deposto il presidente Morsi, eletto nel 2012 con elezioni democratiche.

Le dimostrazioni si conclusero il 14 agosto 2013 con quello che fu definito il Massacro di Rabaa: dopo l’ennesimo rifiuto di resa, la polizia egiziana ricevette l’ordine di sgomberare la piazza dai manifestanti attraverso l’utilizzo di gas lacrimogeni, proiettili di gomma e cecchini sui tetti colpendo indistintamente sia i dimostranti pacifici sia le frange più violente. Nel complesso vi furono più di 2 mila morti, 4 mila feriti e centinaia di manifestanti arrestati, di cui la maggior parte appartenenti al gruppo dei Fratelli musulmani. Tra gli arrestati, vi è anche Mahmoud Abu Zeid, conosciuto come Shawkan. fotoreporter egiziano che al momento del massacro lavorava per l’agenzia fotografica inglese Demotix.

Nonostante sia completamente estraneo al gruppo dei Fratelli musulmani, Shawkan è accusato di: adesione a un’organizzazione criminale, omicidio, partecipazione a un raduno a scopo di intimidazione per creare terrore e mettere a rischio vite umane, resistenza a pubblico ufficiale. Questi capi d’imputazione sono stati resi noti all’avvocato difensore solo il giorno della prima udienza, cioè due anni dopo l’arresto, negandogli così qualsiasi possibilità di preparare una linea difensiva.

Shawkan ha denunciato più volte di aver subito torture all’interno del carcere. Dalle testimonianze raccolte da Amnesty International da ex detenuti e da difensori di diritti umani, i metodi di tortura maggiormente utilizzati dall’Agenzia per la sicurezza nazionale egiziana (Nsa) sono pestaggi, sospensioni per gli arti al soffitto o a una porta, scosse elettriche in aree sensibili del corpo. Capita spesso che i detenuti vengano ammanettati tra di loro dai polsi e divisi da un alto muro, impedendo loro di dormire e causando gravi lesioni agli arti. Prima delle udienze, inoltre, i detenuti rimangono in isolamento per settimane o addirittura mesi fino a quando i segni visibili delle violenze sono poco evidenti.

Una prassi ormai consolidata dai tribunali egiziani è il rinvio di mese in mese delle udienze: ad esempio, l’udienza di Shawkan è stata rinviata più di 50 volte in quattro anni. I familiari del detenuto hanno dichiarato più volte che i capi di accusa a suo carico sono pretestuosi e che quel giorno si trovasse in piazza solo per svolgere il proprio lavoro. Oltre al diritto di difesa gli sono state negate le cure mediche nonostante gli sia stata diagnosticata l’epatite C durante la detenzione. Tutto ciò è aggravato dal fatto che Shawkan è un freelance e dunque non gode di istituzioni che potrebbero sostenerlo o proteggerlo nel territorio egiziano.

È ormai noto che il regime di Al-sisi, al potere da quasi cinque anni, ha sempre fatto ricorso a metodi di tortura, sparizioni forzate ed esecuzioni extragiudiziali. Gli arresti, le detenzioni arbitrarie e i processi iniqui nei confronti di giornalisti, attivisti di ONG e manifestanti pacifici sono all’ordine del giorno.

Nel rapporto Amnesty 2017-18 sulla libertà di espressione e di riunione in Egitto si legge che, tra gennaio e maggio del 2017, i tribunali egiziani hanno condannato almeno 15 giornalisti e, tra aprile e settembre, le forze di sicurezza hanno arrestato più di 200 attivisti politici e manifestanti con l’accusa di aver pubblicato alcuni post online ritenuti “ingiuriosi” nei confronti del presidente o di aver preso parte a proteste non autorizzate.

Per quanto riguarda Shawkan, il 3 marzo i pubblici ministeri egiziani hanno chiesto la pena massima, cioè la morte per impiccagione, per lui e per circa altre 700 persone che erano presenti alla manifestazione del 2013, rinviando nuovamente l’udienza al 17 marzo.

Mentre i mass media egiziani sono controllati dalle autorità e la libertà di espressione è ormai assente, a livello internazionale molti mezzi d’informazione hanno cercato di dare voce alla storia di Shawkan. Nel 2016 il fotoreporter egiziano ha vinto il John Aubuchon Press Freedom Award, istituito dall’organizzazione americana Committee to Protect Journalists (CPJ), che ha il compito di difendere la libertà di stampa nel mondo.

Durante la cerimonia di premiazione il presidente del CPJ ha affermato: «L’Egitto è uno dei più grandi carcerieri al mondo di giornalisti e la situazione continua a non migliorare». Un’affermazione confermata dalla classifica mondiale della libertà di stampa del 2017 pubblicata da Reporter senza frontiere (Rsf), in cui l’Egitto è al 161esimo posto su 180 Paesi.