Giovanni Borgese, il nazionalista convinto fino alla fine

Ultimo nato nella famiglia Borgese, Giovanni (Polizzi Generosa, 1884) cresce in un clima culturale e politico che spiega da solo le tensioni e le spinte della sua generazione, i giovani dei primi due decenni del ‘900.  La Sicilia di questi anni fu una terra attraversata da complesse dinamiche sociali, economiche, culturali e politiche connesse alla perdita di importanza di un’istituzione storicamente molto difesa: il latifondo.

In questo progressivo schiacciamento emerge la centralità dello scontro fra la vecchia “aristocrazia” legata al latifondo da cui traeva non solo i mezzi materiali della sua sopravvivenza, ma il motivo della propria influenza sociale e politica, e la nuova classe media dei lavoratori, e del mondo della cultura che cercava un ruolo autonomo e che col suo dinamismo futurista aspirava a divenire classe dirigente capace di guidare la modernizzazione dell’Isola.

Drastico fu il passaggio di consegne dal Crispi, l’uomo del Risorgimento, al Giolitti interessato agli affari del Settentrione. E per decenni il primo, come difensore della classe media in crescita – e in sostituzione del ceto latifondistico – è rimasto, in qualche modo, indimenticato riformatore e innovatore, anche se la più recente storiografia tenta di glorificare esclusivamente la politica giolittiana, che altro non fu che la rivincita dell’aristocrazia.

Il fratello di Giovanni, il letterato Antonio Giuseppe Borgese, divenuto antidannunziano e antifascista scriveva: “Volevamo conquistare coscienza del compito e del valore di tutta una generazione, di quella ch’era succeduta ai liberatori e avevano potuto svolgersi in condizioni politiche e morali di gran lunga superiori a quelle dei secoli scorsi. E per noi giovani il passato prossimo d’Italia si chiamava Adua (…). L’Italia nuova voleva veramente cercare se stessa, rifare la sua cultura, ristaurare il suo mondo morale, rinfrescare le sue opinioni: in una parola ricollegare il suo presente e il suo futuro col Risorgimento, e alzarsi sopra il suo prossimo passato, in quanto questo era lassitudine e miseria. I primi anni del nuovo secolo sono contrassegnati da un vivo ardore di ricerca e di rinnovamento e di opposizione

In questo processo di crescente patriottismo diede il suo attivo contributo Giovanni Borgese che, nel 1908, ancora studente universitario, diveniva il maggiore esponente della sezione palermitana della Corda Fratres (un’organizzazione internazionale degli studenti). L’irredentismo fu la prima e la più grande passione politica. L’esordio pubblico di Giovanni Borgese avviene, quindi, in occasione delle manifestazioni irredentiste di protesta contro la politica estera italiana, incapace di ottenere quelle “compensazioni” che spettavano all’Italia piuttosto che all’Austria. Tra le priorità politiche di Borgese resta prepotentemente la risposta alle “aggressioni di Vienna che hanno ridestato per un momento la coscienza italiana” che nei pubblici dibattiti vengono presi ad esempio di un rinnovato movimento e moto d’orgoglio.

Siamo nel 1912. Sul Corriere di Sicilia Giovanni Borgese illustrava l’animo e le aspettative dei giovani d’area nazionale e patriottica nella Palermo ai tempi dell’impresa tripolina, riferendosi al periodo giolittiano di “repressione” degli ideali: “la nuova generazione si sentì soffocare sotto questa sepolcrale aura asfissiante, e cominciò a demolire le sante memorie, e trasse la sua ira fino al furore”. L’anno successivo sarà l’anno decisivo per la laurea in giurisprudenza e per l’impegno cittadino – non più solo universitario. Recitava così il comunicato stampa del Congresso Nazionalista: “Gli aderenti di Palermo dell’Associazione Nazionalista deliberano di costituirsi in gruppo onde esercitare opera di propaganda e incaricano il segretario avv. Giovanni Borgese a mettersi in corrispondenza col Comitato centrale di Roma e di rappresentare il gruppo al Congresso.

Alle elezioni del 1914 il Partito Nazionalista si candidò con la Lista dei costituzionalisti per motivazioni – come dichiarava in Piazza Bellini lo stesso Borgese durante un comizio – collegate non ad “asservimenti elettorali, come predicano i nostri avversari, ma per un unico nobilissimo sentimento che è quello di contrapporci alle masse dissolventi la nazione”. Ottenne il seggio al Consiglio Comunale di Palermo insieme ad altri 69 liberali (tra cui molti nazionalisti). Un successo per quella che sembrava una piccola realtà, fino a qualche anno prima, ma capace di organizzare in poco tempo grandi manifestazioni in grado di attrarre una numerosa affluenza di partecipanti.

Ma è appena poche settimane dopo che si rese necessaria la dimostrazione dei reali intenti nei confronti del “dovere bellico”: Borgese stesso fece mandare un telegramma al Governo comunicando che “Palermo non è l’ultima delle città italiane pronta ad accorrere qualora fosse necessario esporre la vita dei suoi figli”. La direzione era presa. L’impegno verso l’originale ideale interventista doveva essere onorato. Per tutto il periodo che va dalle elezioni palermitane fino alla primavera del 1915 – entrata nella Grande Guerra – le tensioni tra chi sosteneva la neutralità italiana e chi l’entrata in guerra era fortissima, e le manifestazioni che si susseguivano, tra cariche della polizia e fitte sassaiole di studenti – anche delle scuole secondarie – accendevano le strade delle maggiori città d’Italia. Palermo venne definita “triste e quasi lugubre” per uno sciopero generale di protesta e per il lutto in cui “si acquietava” la cittadinanza. Infatti c’era scappato il morto: di fianco al Politeama una guardia colpì a morte un giovane studente, dopo diverse revolverate sulla folla di dimostranti.

L’Italia era entrata in guerra con governo ancora fortemente instabile. Borgese, ritornato già la prima volta dalle trincee – di cui ebbe modo di parlare ampiamente durante quei pochi comizi tenutisi prima di ripartire – premeva sulle autorità per poter tornare sul teatro delle operazioni belliche. Riuscito nel suo scopo morì in Trentino il 13 giugno 1916, colpito al capo da una scheggia. Aveva 32 anni. “Giovanni Borgese allo scoppio della guerra, richiamato venne assegnato al Deposito di uno dei reggimenti della città. Ma egli, che era stato uno dei fautori più convinti della necessità del nostro intervento, volle essere mandato al fronte” riporta il quotidiano palermitano L’Ora.

Finiva così la sua giovane vita, onorando i suoi valori nazionalisti e la sua passione politica, in lotta per la liberazione degli italiani rimasti sotto dominio asburgico, il completamento del processo unitario nazionale. Il più importante e convinto leader della Destra Nazionale dell’anteguerra in Sicilia visse un patriottismo puro e sincero, sempre ostile a chi voleva dilaniare la Penisola, sempre pronto a dare voce e spinta a quella gioventù palermitana che vedeva con fervore e passione l’azione politica.

Daniele Monteleone