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Lagerbordell: la prostituzione nei campi di concentramento

Di tutte le testimonianze aberranti sul trattamento disumano riservato nei campi di concentramento, il lagerbordell è quella che ha avuto meno risonanza e che si è tentato di tenere nascosta il più possibile.


Nell’ottobre del 1941, durante una visita nel campo di concentramento di Mauthausen (famoso per essere l’unico campo di “classe 3”, cioè di punizione e di annientamento attraverso il lavoro), il capo delle SS Heinrich Himmler, in vista della scarsa produttività dei prigionieri dovuta soprattutto alla denutrizione, propose un “incentivo al lavoro”, un “bonus” sulla scia dei gulag di Stalin: i lagerbordell.

I sonderbauten, traducibile con “edifici speciali”, erano a tutti gli effetti dei bordelli nei lager. L’obbiettivo della costruzione di questi spazi era quello di dare un incentivo ai lavoratori forzati ma, soprattutto, quello di debellare i casi di “degenerata” omosessualità, sempre più frequenti tra i prigionieri. Furono costruiti in dieci campi di concentramento: Mauthausen, Gusen, Flossenbürg, Buchenwald, KL, Dachau, Neuengamme, Sachsenhausen, Mittelbau-Dora e nel più grande, Auschwitz, che vantava ben 21 ragazze.

Le donne reclutate per i lagerbordell (definite “antisociali”) venivano principalmente dai lager di Auschwitz e Ravensbrück: prostitute rigorosamente tedesche o provenienti da paesi occupati come Ucraina, Polonia e Bielorussia. Categoricamente escluse erano invece le italiane e le ebree, ritenute non degne in quanto prive di “sangue ariano”.

L’età media delle donne scelte era 23 anni, tutte comunque sotto i 25. Dopo diverse violenze e stupri, venivano obbligate a prostituirsi con la promessa di libertà una volta passati sei mesi di lavoro, promessa ovviamente mai mantenuta. Venivano spesso sodomizzate e brutalmente abusate dalle guardie o dagli stessi prigionieri, che nonostante la fame riuscivano a trovare le forze per pochi minuti di sesso.

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Una foto scattata nel campo di concentramento di Ravensbruck

Dal 1943 entrò in vigore il “Regolamento per la concessione di agevolazioni per i prigionieri” che concedeva alle prostitute una maggiore razione di cibo (anche e soprattutto offerto dai clienti) e un orario di lavoro ridotto rispetto a quello delle altre donne internate: dalle ore 20:00 alle ore 22:00 eccetto la domenica, con un ulteriore turno pomeridiano.

Ad usufruire di questi bordelli erano i detenuti-funzionari, i prigionieri “privilegiati” e i membri delle SS. Era vietato l’ingresso agli ebrei e ai prigionieri di guerra sovietici, mentre era concesso invece ai kapò. Per accedere vi era un lungo procedimento da seguire: l’interessato doveva prima presentare una domanda, essere inserito in una lista d’attesa, essere convocato per un appello, sottoporsi ad una visita medica molto blanda al Revier ed infine farsi una doccia. Se privi di bonus il servizio costava 2 marchi.

I tedeschi con le tedesche, i polacchi con le polacche: la selezione razziale era presente anche lì. Il rapporto andava consumato senza protezioni, non poteva superare i 15 minuti e l’unica posizione ammessa era quella del missionario. Una guardia SS monitorava tutto dal buco di una serratura, per assicurarsi che non venissero “infrante le regole”. Gli aborti erano davvero rari: le donne venivano immediatamente sterilizzate, senza anestesia, appena arrivate nel lager.

Dopo la fine della Seconda guerra mondiale la presenza dei lagerbordell è stata oscurata dalla memoria collettiva il più possibile. Sia perché le vittime hanno preferito non testimoniare, provando un profondo senso di colpa per essere riuscite a sopravvivere al contrario di tantissime altre donne, sia perché la Germania trovava “scomodo” affiancare all’immagine di un luogo di annientamento fisico e psicologico anche quello dello sfruttamento sessuale, di cui erano complici molti dei prigionieri incaricati di sorvegliare gli internati. Inoltre, le donne che durante il regime nazista furono costrette a prostituirsi non vennero mai riconosciute come vittime e furono considerate consenzienti, negando loro qualsiasi diritto ad un risarcimento.

Solo dopo gli anni ’90, finalmente, si iniziò a parlare dei lagerbordell, grazie soprattutto alla meticolosa ricerca di studiosi e scrittori come Robert Sommer in “Das KZ-Bordell” («Il bordello nel campo di concentramento») presentato nel 2009 al parlamento della città-Stato di Berlino o Helga Schneider, autrice de “La baracca dei tristi piaceri”, romanzo tratto dalla testimonianza della sopravvissuta Frau Kiesel. Ancora oggi, però, in pochi conoscono questo lato del regime nazista. Un lato terribile che, visti soprattutto i tempi in cui viviamo, è necessario conoscere.

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