Home-browed beer: una birra artigianale divenuta fatale

Di Simona Di Gregorio – Conoscere il mondo non significa soltanto fare la valigia e viaggiare, significa anche essere curiosi e scoprire realtà diverse dalle nostre,  spesso lontane, frequentemente distanti da noi culturalmente e ideologicamente e quasi sempre in grado di stupirci per le loro bizzarre, a volte grottesche, tradizioni. Se chiudiamo gli occhi e viaggiamo con la mente fino alle rive del fiume Kerio, incontriamo un divertente gruppo etnico: la popolazione Keyo.

Appartengono al gruppo dei Kalenjin e vivono ad oltre 700 metri di altezza nella gola del fiume Kerio. Si trasferirono qui quasi un secolo fa per evitare gli attacchi dei Karamojong dell’Uganda. Sono principalmente allevatori e portano il bestiame a pascolare sulle ricche pianure dell’altopiano Uasin Gishu. I Keiyo erano per tradizione dei grandi cacciatori di elefanti, di bufali e di rinoceronti e per alimentarsi presto impararono anche a coltivare. Occupano tre zone ecologiche che vanno dall’alto piano, si estendono lungo dei terrazzamenti naturali e giungono fino alla riva del fiume Kerio. Le tre zone, pur essendo vicine tra loro, sono caratterizzate da un’ enorme varietà di piantagioni differenti che dipendono non solo dal tipo di terreno, ma anche dal tipo di famiglie che abitano la zona e soprattutto dalla presenza o meno di donne.

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La tribù Keyio è popolata da gente semplice e dedita all’agricoltura e recentemente sono divenuti anche dei gran produttori di birra. Sì, proprio di birra, la tipica bevanda che siamo abituati ad associare a grandi industrie belghe, danesi o tedesche, si produce anche in Africa.  Un antico racconto narra che i keiyani utilizzavano i cereali come base del loro infuso già nel 1927. In quegli anni erano soliti preparare una bevanda dalla fermentazione del miglio e del sorgo, inizialmente si chiamava “busaa” in alcune parti del kenya e “mayek” tra la gente keiyo ed altri gruppi kalenjini. L’ infuso iniziale negli anni 60 iniziò ad essere distillato in una bevanda molto più forte e pericolosa: la chang’aa o la wirgi volgarmente detta nella lingua kaleina. La bevanda iniziale conteneva il 4% di alcol, ma ben presto divenne wirgi, una birra molto più forte, capace di rendere l’intero gruppo degli uomini del villaggio ubriaco fin dalle prime ore del mattino a tal punto da costringere il presidente Daniel Arap Moi negli anni 70’ a vietarne la produzione. Tuttavia il rispetto del divieto fu a dir poco impossibile in quanto la birra era divenuta parte integrante delle usanze del popolo.

Nelle zone rurali la birra era onnipresente, faceva parte delle più importanti tappe della vita culturale: veniva utilizzata come offerta per le divinità capaci di intervenire nelle faccende della realtà e si credeva fermamente che potesse rallegrare lo spirito degli dei. Essa era inoltre offerta ai ragazzi nella cerimonia di iniziazione all’età adulta e durante la loro circoncisione; infine era un dono importante di nozze dato che i giovani ragazzi la offrivano come dono al padre della sposa per riceverne il consenso. Quest’ultima tradizione fu facile da eliminare nel momento in cui la tribù conobbe il valore dell’argento ed i padri cominciarono a preferirlo alla birra. Il resto invece ancora oggi risulta difficile da estirpare. Il problema più grosso rimase quello del consumo di birra mattutino: prettamente maschile. Veniva bevuta a colazione e divenne sia un modo  per sopportare la fatica del lavoro agricolo sia “l’unica distrazione maschile che gli uomini  avevano per rompere la monotonia del villaggio” (Audrey Richards).

L’uso  ricreativo divenne così uso dominante e lentamente ha ridotto gli uomini del villaggio schiavi dell’alcool.

La birra, divenendo simbolo d’iniziazione del contadino, costringeva chi si accingeva al campo a bere, e pian piano ad avere l’abitudine di farlo ogni giorno, trasformando così i contadini da lavoratori ad alcolisti. Non sembrerà strano a questo punto capire come la birra divenne il loro mezzo di scambio più efficace, più importante del salario.  L’illegale bevanda alcolica, chang’aa, divenne così pericolosa da uccidere 20 persone in quattro villaggi del distretto di muranga’a. Alcune fonti hanno rilevato che la bevanda veniva spesso corretta con delle sostanze velenose per renderla più forte .

La differenza tra l’infuso originario e la changa’aa  stava proprio in queste correzioni. L’infuso originario conteneva solo il 4% di alcool e, come afferma lo studioso Platt nel 1955, la presenza di acido ascorbico e di vitamina B, insieme a proteine macrobiotiche gli conferivano un alto valore nutrizionale, che garantiva un buon livello di salute ai consumatori abituali. Ma la changaa ebbe un’evoluzione differente. Il nome significa letteralmente «kill-me-quick» -uccidimi-velocemente-, e non poteva essere scelto in maniera migliore, infatti la presenza di metanolo la rendeva spesso fatale: 10ml di metanolo può far bruciare interamente i nervi ottici; 30ml può arrivare ad uccidere.

L’utilizzo della birra come merce di scambio è stata una conseguenza dell’instaurazione progressiva dell’economia di mercato coloniale e post coloniale. Durante l’epoca coloniale il popolo keiyo doveva pagare le tasse all’impero britannico per produrre e commerciare la birra, che a lungo andare divenne prodotta a conduzione familiare e non più venduta.  Nell’ epoca post coloniale invece gli uomini la producevano e le donne la vendevano. Oggi giorno la birra viene prodotta e venduta dalle donne mentre viene essenzialmente consumata dagli uomini in quanto alle donne rimane ancora vietato berla.

Il Kenya non è l’unico paese ad avere problemi di questo genere. La UN’s World Health Organisation ha registrato che la metà dell’Africa assume bevande alcoliche prodotte e distribuite illegalmente. In Uganda, ad esempio, si beve il waragi banana gin che arriva ad uccidere fino a 100 persone al mese per intossicazione. In Botswana, molti muoiono per la «laela mmago» una bevanda chiamata “goodbye mum”.

Pochi provvedimenti sono stati presi fin ad ora sia dal governo locale che dalla comunità internazionale, tuttavia alcune industrie rilevanti come ad esempio la East African Breweries, hanno intrapreso campagne di aiuto e di sostegno per gli alcolisti africani nelle maggiori città dove si registra il problema. Il tasso rimane purtroppo molto alto e ciò che per noi resta una bevanda che accompagna le chiacchiere con gli amici, in alcune città dell’Africa è divenuta la principale causa di un alcolismo diffuso ed insostenibile.