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L’inflazione in Europa secondo Eurostat e BCE

L’ultima stima flash rilasciata dall’Eurostat sembra mostrare che l’inflazione sia in via di riassorbimento. Va tutto bene, quindi?


I dati sull’inflazione rilasciati dall’Eurostat il 31 marzo mostrano come la situazione stia migliorando. Il dato è in frenata su base mensile di oltre un punto e mezzo percentuale, passando dall’8,5% di febbraio al 6,9% di marzo. Questo risultato è ottenuto soprattutto grazie al crollo dei prodotti energetici che presentano, addirittura, un dato in deflazione di quasi l’1%. Per meglio comprendere la situazione attuale basta un rapido sguardo alla tabella sottostante rilasciata dall’Istituto di Statistica europea.


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Il dato sulla componente energetica è la buona notizia: esso è crollato dal 13,7% di febbraio al -0,9% di marzo: un calo di quasi 15 punti complessivi. Le dolenti note provengono dagli altri settori: la componente alimentare non sembra mostrare rallentamenti se non lievi, passando dal 15,4% di febbraio al 15% attuale; in linea col settore alimentare è quello industriale, al netto della componente energetica, che mostra una riduzione contenuta, passando dal 6,8% di febbraio al 6,6% attuale; in controtendenza è il settore dei servizi, cresciuto dal 4,8% di febbraio al 5% attuale. 

La dinamica dei prezzi, purtroppo, sta proseguendo il suo trascinamento dal settore energetico verso gli altri settori. Questa traiettoria probabilmente proseguirà nei prossimi mesi, sebbene il livello complessivo dei prezzi continuerà la decelerazione.

Il settore energetico, al netto di fiammate derivanti da situazioni contingenti (si pensi all’impennata dei prezzi del 3 aprile dovuta al taglio di un milione di barili di greggio decisa in modo inatteso dall’Opec), dovrebbe mantenersi pressoché stabile: la domanda si mantiene debole e in caso di recessione economica, o di minore crescita, continuerà a indebolirsi; inoltre, i sempre maggiori investimenti nel settore delle rinnovabili stanno diversificando sempre più l’offerta diluendo il peso complessivo degli idrocarburi sul totale.

Di particolare pregio, con riguardo al tema in esame, è il contributo pubblicato il 30 marzo sul blog della Banca Centrale Europea (BCE). Gli autori, Oscar Arce, Elke Hahn e Gerrit Koester, erano interessati nel vedere come l’inflazione venisse distribuita non fra le sue componenti ma fra costo del lavoro e profitti. Al riguardo, sono presenti forti sorprese.

Dal punto di vista puramente teorico, all’esplosione dell’inflazione a causa di una componente esterna, come l’energia, ci si attenderebbe che siano i salari a cercare di recuperare potere d’acquisto: le cose non sono andate esattamente così. I salari nominali tendono ad essere abbastanza “appiccicosi” in realtà, irregimentati all’interno di procedure di rinnovi contrattuali e concertative in cui è complesso recuperare la componente di potere d’acquisto persa, quantomeno nel breve periodo (sempre che si riesca a recuperarla). 

Diversa è la situazione della componente del profitto, come dimostrato dai tre autori. In particolare, essi sottolineano come, a partire dal 2019 in alcuni settori e dal 2021 nell’economia nel suo complesso, i profitti abbiano aumentato la propria dimensione per assorbire l’inflazione, tendendo ad aggravarla. Il grafico in basso, tratto dall’articolo, rende visivamente quanto indicato.


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Nel grafico sulla destra, che confronta un arco di tempo lungo (1999-2022) rispetto al solo 2022, è evidente come la componente dei profitti sia letteralmente esplosa. Questa crescita spropositata di tale componente sul dato dell’inflazione rischia di mettere in difficoltà la politica monetaria della BCE: «In uno scenario meno benigno, dove chi fissa prezzi e salari tende ad annullare ogni perdita reale di reddito, dovremo affrontare il rischio di aggiustamenti successivi fra prezzi e salari che porteranno a una spirale prezzi-salari con effetti duraturi sull’inflazione».

In assenza di un rallentamento di entrambe le componenti, dei profitti soprattutto, si renderà necessaria una stretta monetaria più incisiva e una crescita maggiore dei tassi di interesse. L’impatto sulla crescita di politiche monetarie ancor più restrittive comporterà una riduzione del Pil e, probabilmente, una recessione. Tassi di interesse più alti potrebbero, inoltre, farsi sentire in modo importante sul settore bancario, già in difficoltà, con effetti di maggiore instabilità e una probabile stretta creditizia.  

Tornando al grafico iniziale, pur in un positivo quadro di rallentamento dell’inflazione complessiva, va notato come quella ad essere in crescita è la componente inflattiva più persistente e di più difficile rallentamento, l’inflazione di fondo. Contrastarla sarà un esercizio complicato; forse sarebbe stato più opportuno, come sostenuto da alcuni esperti, all’inizio della guerra in Ucraina porre un tetto al prezzo delle componenti energetiche, ottenendo due vantaggi contemporaneamente: non fare esplodere l’inflazione europea, figlia di uno shock esterno determinato dall’offerta energetica e, contemporaneamente, smettere di finanziare, in un modo o in un altro, l’offensiva militare russa.

In conclusione, il dentifricio è uscito dal tubetto: rimetterlo dentro non sarà semplice e soprattutto, come sperimenteremo a nostre spese, non sarà economicamente indolore.

(Foto di Copertina – fotoblend)

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