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Il ruolo dei mass media nei conflitti internazionali

Sta accadendo di nuovo: l’umanità si sgretola davanti ai nostri occhi. La nostra bocca rimane tappata dalla frivola leggerezza dell’indifferenza di massa. I mass media come ci stanno raccontando questa storia?


In un mondo iperconnesso e saturo di informazioni, la sfida di attirare l’attenzione sulle tragedie contemporanee assume contorni sempre più complessi. Si assiste, quasi paradossalmente, a una gara nell’informazione e nel mondo dei mass media per catturare l’interesse di un pubblico capriccioso. Mentre due massacri contemporanei implorano di essere raccontati, ci troviamo immersi in un contesto in cui gli strumenti della comunicazione sono diventati parte integrante della guerra.

«Ma come fate a dire che qui è tutto normale, Per tracciare un confine con linee immaginarie bombardate un ospedale. Per un pezzo di terra o per un pezzo di pane. Non c’è mai pace». Ghali, “Casa mia”

Più di cento giorni di genocidio. Sotto i nostri occhi: 35mila persone uccise, 13mila bambini, 70mila persone ferite. Sono 36 gli ospedali bombardati e 120 giornalisti uccisi. Decine di scuole distrutte. Hanno bombardato dal cielo, dal mare e coi tank. Hanno sparato coi cecchini, ucciso chi scappava, chi si nascondeva, chi teneva per mano i propri bambini. Hanno demolito, bruciato, distrutto, avvelenato la terra con acqua di mare. Profanate le tombe. Rubato cadaveri, organi, soldi, gioielli, beni, opere d’arte, ricordi memorie. Hanno gambizzato, picchiato, marchiato, i prigionieri. Hanno tentato di strappare al popolo palestinese la dignità. Non accade da quattro mesi ma da 75 anni.

«Voi che vivete sicuri nelle vostre tiepide case, voi che trovate tornando a sera, il cibo caldo e visi amici: Considerate se questo è un uomo». Primo Levi, “Se questo è un uomo”

Sembrano parole così contemporanee, eppure sono riferite ad un tempo che sembrava essere molto lontano, invece la storia si ripete. La guerra è un lavoro da narratore e una buona storia è fondamentale per legittimarla.

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La geopolitica dei mass media e la responsabilità dei giornalisti

Il conflitto tra Israele e Palestina rappresenta una delle questioni geopolitiche più intricate e delicate a livello internazionale. In questo complesso scenario, i mass media giocano un ruolo cruciale nel plasmare le percezioni, influenzare le opinioni pubbliche e guidare le azioni politiche. Per comprendere appieno questo contesto, possiamo attingere agli insegnamenti di Gerard Toal nell’ambito della geopolitica critica.

La geopolitica critica, emersa negli anni Ottanta, si situa al crocevia tra geografia e relazioni internazionali. Essa sottolinea il legame profondo tra potere, conoscenza e discorso geografico. Secondo Toal, il discorso non è semplicemente un mezzo di comunicazione, ma un insieme coerente di rappresentazioni e pratiche che plasmano il senso comune e naturalizzano una visione specifica del mondo. In questo contesto, la geopolitica dei mass media riveste un ruolo fondamentale. Le narrazioni veicolate dai media non sono solo informazioni neutrali, ma strumenti potenti che possono legittimare o contestare azioni politiche.

Non è solo il potere formale a essere rilevante, ma anche il potere sostanziale che risiede nelle rappresentazioni mediatiche. La prospettiva di Toal ci aiuta a comprendere come i discorsi mediatici influenzino l’opinione pubblica e legittimino le azioni dei governi in un contesto così delicato come quello tra Israele e Palestina. In un mondo in cui le notizie si diffondono a velocità vertiginosa, il ruolo dei giornalisti in tempi di guerra diventa ancor più importante. La loro responsabilità di informare il pubblico in modo accurato e ponderato è enorme, soprattutto quando si tratta di conflitti come quello tra Israele e Palestina.

La tecnologia ci offre la possibilità di condividere contenuti istantaneamente, ma la fretta non deve compromettere la qualità e l’attendibilità delle informazioni. I giornalisti hanno il dovere di informare con responsabilità, rispettando i diritti fondamentali delle persone e cercando la verità sostanziale dei fatti. La loro voce può contribuire a una comprensione più approfondita e a una soluzione pacifica in un mondo segnato da divisioni e conflitti.

La disinformazione e il ruolo dei social media

Nell’ambito del conflitto tra Israele e Palestina, l’attacco a sorpresa di Hamas contro Israele, avvenuto il 7 e 8 ottobre, ha scatenato una serie di reazioni. Giornalisti, ricercatori, esperti di open source intelligence (Osint) e fact-checkers si sono affrettati a esaminare la marea di video e immagini condivisi online dalle persone sul campo. Tuttavia, nonostante gli sforzi, chi ha cercato notizie sul conflitto su “X” (precedentemente noto come Twitter) si è imbattuto in informazioni fuorvianti, foto false e persino spezzoni di videogiochi. Questo livello di disinformazione è senza precedenti.

A sostenere la comprensione di questa preoccupante situazione c’è NewsGuard, una società specializzata nella valutazione dei media e delle notizie. NewsGuard si impegna a valutare e assegnare un rating ai siti web di notizie e alle fonti di informazione online, al fine di aiutare le persone a distinguere tra fonti affidabili e contenuti potenzialmente non veritieri o di bassa qualità. Fondata da giornalisti e professionisti dei media, NewsGuard si pone come un faro di integrità nell’oceano di informazioni durante i conflitti.

Queste storie si sono diffuse in modo virale, soprattutto su X, una piattaforma acquisita circa un anno fa da Elon Musk. È stata la prima vera prova della versione di X come piattaforma di informazione e comunicazione durante un conflitto di tale portata e si è dimostrata un vero e proprio fallimento. La verifica delle informazioni e la cautela nell’affrontare contenuti virali sono fondamentali per mantenere l’integrità del giornalismo e per aiutare il pubblico a distinguere tra notizie accurate e contenuti fuorvianti al fine di creare un’opinione pubblica fondata sulla verità.

Tra i mass media, la stampa

Il dibattito sulla copertura mediatica del conflitto in Palestina ha assunto una prospettiva critica, evidenziando le connessioni ideologiche di alcuni influenti media italiani e non solo.

I giornali da cui leggiamo le principali notizie sul conflitto sono diretti da personaggi come Maurizio Molinari che non ha mai nascosto i suoi legami con il Likud, partito politico israeliano. Scritti seguendo una linea editoriale favorevole al Likud portata avanti da giornaliste come Rossella Tercatin, scrittrice per La Repubblica e Jerusalem Post. Non si fa mancare posizioni contro il rispetto del diritto internazionale da parte di Israele in molteplici suoi articoli Ernesto Galli nel Corriere della Sera ( in campo internazionale anche il New York Times vacilla con pubblicazioni che fanno riferimento a dichiarazioni di Yossi Landau).

Questi sono alcuni esempi di una propaganda dall’impatto emotivo forte capace di giustificare e veicolare le emozioni tanto da poter giustificare la disumanità di ciò che sta accadendo. Molti articoli se ben analizzati suscitano immediatamente domande sulla neutralità e l’obiettività nella copertura mediatica del conflitto, sollevando interrogativi importanti sulla veridicità e completezza delle informazioni veicolate dai principali mezzi di comunicazione italiani. Perché testate importanti a livello internazionale diffondono posizioni non veritiere? La risposta è semplice: veicolare l’opinione pubblica, stabilire un pensiero condiviso su popoli di serie A e di serie B, creare un substrato capace di giustificare, di stratificare una concezione di colpa che deve essere punita.

Il giornalismo di pace

I mass media hanno un grande potere e, di conseguenza, una grande responsabilità nell’offrire al pubblico informazioni accurate e strumenti adeguati a comprendere i conflitti armati. Diventano, essi stessi, attori del conflitto nella misura in cui, con le loro narrazioni, possono contribuire a esacerbare o ridurre la violenza. Il conflitto armato in corso tra Hamas e Israele non fa eccezione: il modo con cui i media, tradizionali e social, raccontano gli eventi ha un ruolo fondamentale nel plasmare le opinioni pubbliche e l’agenda politica. 

Guardando ai principi del “giornalismo di pace” elaborati da Johan Galtung, tante sono le questioni da affrontare. Quanto spazio viene dato nei media italiani agli episodi di violenza e quanto all’analisi e alla ricostruzione delle cause del conflitto? Quali fonti vengono usate? Quali voci trovano ascolto? Come viene usata la storia per spiegare l’attualità? Quali parole usiamo per descrivere la violenza, chi la compie e chi la subisce? E come queste diverse scelte giornalistiche influenzano l’opinione pubblica e la politica? E ancora: come fare un uso critico delle notizie, evitando la propaganda di guerra? E infine: come trovare fonti di informazione affidabili e capaci di restituirci la pluralità dei punti di vista in gioco nel conflitto in corso? 

Serve aprire un dibattito su come veniamo informati e su come ci informiamo, provando a uscire da sterili polarizzazioni ma tenendo ferma la bussola dei diritti umani, del rispetto del diritto internazionale e delle vie nonviolente di risoluzione dei conflitti. Johan Galtung, tra i fondatori degli studi sulla pace contemporanei, promuove un giornalismo di pace che non alimenti il conflitto armato, ma contribuisca alla sua comprensione critica e, in prospettiva, alla sua trasformazione non violenta.

È quasi impossibile da immagine, in un mondo in cui la semantica del linguaggio è dettata dall’odio e dalla violenza. Tuttavia tutti noi abbiamo bisogno di credere che si possa ancora «immaginare che non ci siano paesi, niente per cui uccidere o morire, neppure la religione … un mondo dove vivere in pace» (John Lennon, Imagine)

“Va dunque e colpisci amalek e vota allo sterminio”

«Va dunque e colpisci Amalek e vota allo sterminio quanto gli appartiene, non lasciarti prendere da compassione per lui, ma uccidi uomini e donne, bambini e lattanti, buoi e pecore, cammelli e asini» (1 Sam 15,2-3). Sono i versi che stanno ispirando i soldati al grido di “bruciamoli tutti”. Hanno persino ispirato una canzone contro la Palestina prima nelle classifiche sulle piattaforme di musica in streaming più famose del mondo. Un paradosso. Anzi di più: un abominio. Peraltro non una canzone che parla della situazione internazionale, ma inneggia proprio alla distruzione della Palestina e augura la morte a diverse persone, compresi alcuni volti noti.

«Bella Hadid, Dua Lipa, Mia Khalifa arriverà il giorno di ogni cane. Tutte le unità dell’IDF stanno arrivando, per mettere il calore della spada sulle loro teste, guai guai» è uno dei passaggi di ‘Harbu Darbu‘, brano del duo israeliano Ness & Stilla.

Scrivere di questi argomenti, dire ad alta voce ciò che sta accadendo è doloroso pure per chi è lontano, sembra essere in un delirio di massa. Canzoni del genere continuano ad essere cantate, tuttavia abbiamo ritenuto necessario mettere a tacere le richieste di cessate il fuoco sulle tv italiane.

Non è una gara a chi ha più diritto di esprimere la propria opinione, è un dato oggettivo: c’è chi sta promuovendo una propaganda che fa leva sull’impatto emotivo capace di giustificare un genocidio gravissimo che si sta consumando proprio davanti ai nostri occhi mentre il mondo canta la colonna sonora di un genocidio.

Oggi c’è solo una certezza: stiamo scrivendo nuove pagine di storia di cui ci vergogneremo: i palestinesi stanno subendo ciò che in passato hanno subito gli ebrei. Non ha funzionato con Hitler, non funzionerà neppure oggi con Netanyahu.

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