Crisi bancaria in USA, cronaca di un effetto domino

Dopo il crollo di SVB, Signature Bank e First Republic Bank, il settore bancario americano è in fortissima sofferenza. Quali sono le cause profonde e quali i rischi?


In principio, è stata la Silicon Valley Bank (SVB), seguita da un tracollo simile di Signature Bank e, per ragioni diverse, Credit Suisse in Europa. Dopo una agonia di un mese, è crollata First Republic Bank, acquisita da JPMorgan. Adesso nell’occhio del ciclone sono finite altre tre banche: PacWest Bancorp, Western Alliance e First Horizon. Altre ancora iniziano a traballare, come Zions Bancorp, Comerica e Metropolitan Bank. In comune hanno l’essere banche regionali o piccole banche.

L’ordine di dimensione dei crolli nelle quotazioni è devastante. PacWest, nella giornata di giovedì 4 maggio, ha perso oltre la metà del suo valore, già fortemente svalutato da precedenti forti cali, dopo aver dichiarato di essere alla ricerca di qualcuno che possa acquisirla. Per First Horizon, la perdita ha superato il quaranta percento nella stessa giornata, dopo aver preso atto dell’impossibilità di una fusione con una banca canadese. Anche Western Alliance ha perso circa il quaranta percento del suo valore per voci, poi smentite, sulla ricerca di un compratore.

La settimana successiva, le tre banche summenzionate hanno in parte recuperato i cali, a eccezione di PacWest, che nella giornata di giovedì 11 è nuovamente crollata del venti percento dopo aver dichiarato una perdita di quasi il dieci percento dei depositi e di essere in trattativa con investitori. Un effetto domino sugli altri istituti di credito è altamente probabile.

Le cause della crisi bancaria

Le ragioni che sono alla base di questi crolli, al netto di una forte componente speculativa e di differenze tra un caso e l’altro, sono riconducibili sostanzialmente agli effetti di una “corsa agli sportelli”. Questa fuga dei depositi è determinata da una componente legata al panico del correntista, alla luce di possibili difficoltà dell’istituto, ma anche alle dimensioni del deposito. 

I depositi superiori a 250.000 dollari non presentano alcun tipo di copertura assicurativa da parte delle autorità monetarie e, quindi, possono essere coinvolti nelle procedure di fallimento. I titolari di questi depositi hanno l’interesse a spostarli rapidamente in caso di difficoltà, stante il carattere maggiormente volatile. Alcune delle banche coinvolte presentavano in modo predominante depositi con queste caratteristiche.

Vi è poi un problema di redditività dei conti correnti diventata estremamente bassa, quasi nulla, a fronte dell’esplosione dei tassi di interesse stabiliti dalle autorità monetarie. Questo ha come conseguenza che i correntisti cerchino remunerazioni migliori per il proprio capitale, in particolare proprio quella fetta volatile di risparmiatori con depositi da oltre 250.000 dollari.

Inoltre il sistema finanziario statunitense è molto più fluido di quello europeo e, soprattutto, è molto meno banco-centrico. I risparmiatori hanno un ampio margine di offerta verso la quale muovere i propri risparmi, con alcuni attori che promettono tassi di interesse molto più corposi di quelli offerti dalle banche, fossero anche i semplici titoli di Stato statunitensi che, al momento, garantiscono un tasso di interesse di oltre il cinque percento.  

La trasformazione delle scadenze

Scavando sotto la mole delle innovazioni bancarie, quello che si ritrova è il vecchio problema tipico di ogni banca: la trasformazione delle scadenze. Il cuore del problema degli istituti di credito in difficoltà è quello di avere destinato ad impieghi poco liquidi risorse di clienti che possano chiudere il proprio conto, o spostarne il contenuto, con un paio di click sul mouse. 

Queste banche hanno fatto sostanziosi investimenti in titoli i cui tassi di interesse rasentavano lo zero e, adesso, si trovano in un ambiente in cui i medesimi sono al cinque percento. Disinvestire su questi titoli per soddisfare le richieste dei clienti porta a forti perdite, ma, contestualmente, gli istituti di credito si ritrovano nell’impossibilità di poter offrire tassi di interesse più generosi ai propri correntisti, perché la redditività è bloccata proprio da quei titoli poco fruttuosi.

Per rendere ancor più chiara la situazione, può essere d’aiuto fare un piccolo esempio. Un decennale del Tesoro americano del 2020 aveva tassi di interesse bassissimi (eravamo in piena fase di stimolo economico): venderli adesso significa realizzare una grossa perdita determinata dal fatto che il mercato prezza questi titoli a un valore molto più basso di quello nominale per scontarne proprio il tasso misero.

Al contempo, però, la scadenza avrà luogo solo fra sette anni per recuperare il capitale. Nel frattempo, i depositanti possono abbandonare la banca e metterla in crisi con una corsa agli sportelli senza che vi sia una liquidità sufficiente a farvi fronte. 

Per assurdo, l’istituto di credito potrebbe non essere in crisi, potrebbe essere solvibile, potrebbe avere fatto investimenti considerati sicuri, ma potrebbe altresì non avere abbastanza liquidità per soddisfare i correntisti e, quindi, fallire. Il problema è aver investito eccessivamente nel passato su questi titoli, nella convinzione che la fase di tassi zero fosse eterna e incontrovertibile.

Le carenze regolatorie

La prima falla nel sistema di regolazione che può aver determinato la corsa agli sportelli è proprio la regolamentazione sulle risoluzioni bancarie. In assenza di una garanzia per i depositi sopra i 250.000 dollari, è abbastanza palese che i titolari, alle prime avvisaglie di rischio, spostino i propri depositi per non rischiare di vederli finire in fumo.

Sarebbe molto semplice da parte delle Autorità federali, come già fatto per altro nel fallimento di SVB, dichiarare che verranno garantiti tutti i depositi a prescindere dalle loro dimensioni. Questo contribuirebbe a stemperare le tensioni.

Crisi bancaria USA SVB
Kori Suzuki/Reuters

Un secondo problema riguarda la supervisione bancaria. Le banche che sono finite, sono in pieno o stanno per finire nell’occhio del ciclone hanno la caratteristica comune di essere considerate non sistemiche, perché con un ammontare di asset inferiore a 250 miliardi di dollari, e quindi esonerate dal rispetto di molte parti della regolazione indicata dal Dodd-Frank Act e da altre norme restrittive.

Questo ha permesso gestioni meno solide delle banche e una serie di squilibri interni che adesso stanno presentando il conto.

A differenza di questa categoria di istituti di credito, le banche di dimensione sistemica, sottoposte a stringente regolamentazione, mostrano di avere avuto una gestione più “sana” e adesso essere più resilienti: infatti, alcune di queste ultime stanno cercando di salvare e acquisire gli istituti di credito in difficoltà.

Proprio questi due problemi, fra numerosi altri, sono indicati nel documento stilato dalla Federal Reserve, che analizza le criticità nella gestione della risoluzione di SVB, fra le falle nella regolamentazione bancaria.

Al riguardo, viene consigliato di modificare le regole sulla garanzia dei depositi, garantendoli tutti a prescindere dalle dimensioni e di rafforzare le regole della vigilanza per le banche i cui asset superino i 100 miliardi di dollari. 

I rischi della crisi bancaria

I fallimenti cui stiamo assistendo presentano diversi rischi da valutare. Il primo è il classico rischio contagio: una delle banche fallite potrebbe essere esposta nei confronti di altri istituti di credito che, a loro volta, potrebbero fallire. Questo difficilmente potrebbe accadere nei confronti di banche sistemiche, le cui dimensioni dovrebbero porle al riparo nel caso di fallimenti di piccole o medie banche, ma potrebbe accadere con istituti di credito di dimensioni simili. 

Il secondo rischio da considerare è l’effetto dei fallimenti sulla fiducia di correntisti e azionisti. Tale scenario ha già avuto modo di dispiegarsi e risulta alla base dell’effetto domino sopra descritto. La diminuzione di fiducia, inoltre, consente di attuare manovre speculative molto più energiche e con minori rischi: al riguardo, non sarebbe una cattiva idea, da parte delle autorità di borsa, limitare le vendite allo scoperto dei titoli bancari sotto pressione. Recuperare la fiducia risulterà la parte più complessa per il settore bancario.

Il terzo rischio – e, probabilmente, il peggiore in assoluto – è lo sviluppo di una forte stretta creditizia.

Gli istituti bancari subiscono la pressione di diversi ambiti, in particolare a causa dell’elevato tasso d’interesse applicato dalle Banche centrali che, da una parte rendono molto più complicata l’erogazione di prestiti a causa dei tassi elevati, e dall’altro incrementano il rischio di insolvenze su crediti già erogati.

Il rischio è che le banche, anche per mantenere un cuscinetto maggiore di liquidità, a causa della speculazione di eventuali “corse agli sportelli” e per fare fronte alle varie insolvenze, possano diminuire la quantità di fondi immessi nell’economia reale. 

Il problema è che una stretta creditizia in Europa è già cominciata, probabilmente dovuta alla politica monetaria restrittiva, come indicato dall’indagine trimestrale sul credito bancario effettuata dalla Banca Centrale Europea (BCE); e questa stretta è la peggiore dai tempi della Crisi dei Debiti Sovrani. Le previsioni sono di un ulteriore peggioramento nel secondo trimestre. 

Negli Stati Uniti, il rischio di un’ulteriore stretta creditizia a seguito dei fallimenti bancari è tenuta ben in conto dalla Fed, che lo sottolinea nel suo Financial Stability Report di maggio: «…preoccupazioni circa le prospettive economiche, la qualità del credito e la liquidità di finanziamento potrebbero portare le banche e altri istituti finanziari a contrarre ulteriormente l’offerta di credito all’economia». 

Nel caso in cui la stretta creditizia si rafforzasse, l’economia reale avrebbe forti difficoltà sul reperimento di fondi per finanziare consumatori e imprese. La cosa sarebbe particolarmente grave in Europa, notevolmente più dipendente dai prestiti bancari rispetto agli Stati Uniti. Gli effetti sulla crescita economica sarebbero molto decisi e una recessione molto probabile.

In conclusione, preme sottolineare come molti dei problemi e delle difficoltà degli istituti bancari statunitensi dipendano da gestioni scriteriate dei propri amministratori delegati, che, però, raramente ne rispondono in modo opportuno.

Al riguardo, sono illuminanti le parole che due grandi vecchi del capitalismo mondiale come Warren Buffet e Charlie Munger hanno rilasciato all’incontro annuale degli azionisti della Berkshire Hathaway, la compagnia che guidano.

Il primo ha sottolineato letteralmente come «CEO and directors should suffer» quando le banche che guidano falliscono. Il secondo ha dichiarato che, a suo avviso, il banchiere dovrebbe assomigliare più a un ingegnere che costruisce, cercando di capire e prevenire cosa possa andare storto che essere guidato esclusivamente all’arricchimento personale a qualunque costo. Potrebbero avere ragione.



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