L’Italia è una repubblica fondata sul lavoro, ma che tipo di lavoro?

In un mondo, soprattutto quello occidentale, in cui l’impiego è importante quanto il tempo dedicato alla propria “umanità”, non è più accettabile ragionare con le vecchie definizioni di lavoro.


Il lavoro è «l’applicazione delle facoltà fisiche e intellettuali dell’uomo rivolta direttamente e coscientemente alla produzione di un bene, di una ricchezza, o comunque a ottenere un prodotto di utilità individuale o generale» (Treccani). 

Il lavoro è forse la forma più antica di impegno dell’uomo all’interno di un gruppo che può essere chiamato società. Pensando alle ataviche società di uomini cacciatori-raccoglitori, può essere inteso come l’attività di allontanarsi dal proprio accampamento per cercare cibo da poter condividere con tutto il gruppo. Quindi, fine ultimo del lavoro, già dai tempi preistorici, è quello di consentire a un uomo o una piccola comunità di potersi mantenere. 

Il lavoro come “linea di demarcazione”

Col tempo, però, la funzione del lavoro all’interno delle società più complesse è cambiata, assumendo una funzione di indicatore sociale. Di fatto il lavoro divenne schiavitù, segnando una netta linea di demarcazione all’interno delle comunità; da una parte avremo trovato coloro i quali amministravano le città o le comunità, dall’altro gli schiavi senza diritti, senza potere di scelta.

Bisognerà aspettare fino alla seconda rivoluzione industriale e alle conseguenti Internazionali di stampo socialista per poter osservare un nuovo drastico cambiamento all’interno del mondo del lavoro. La nascita dei sindacati, la presa di coscienza dei lavoratori, il riconoscimento di una posizione sociale furono il principio che avrebbe portato a dei veri e propri moti rivoluzionari all’interno dell’allora mondo occidentale. 

Ma partendo da quei moti e osservando la condizione attuale si può ben dedurre che si è avverato ciò che il buon Marx aveva sempre ripudiato. Il lavoro oggi è la benzina del motore del capitalismo: si lavora per produrre beni e ricchezza da spendere in altri beni che dovranno essere prodotti, una perfetta catena di montaggio, simile a tutti gli effetti alla “Spirale della desocializzazione” di Mark Spivak. 

Vivere per lavorare

Oggi i governi vanno a braccetto con questa nuova visione, che diventa centrale in ogni manovra finanziaria di qualsiasi Paese, non per ultima la nuova Italia di Giorgia Meloni. Ma cosa sfugge? Sfugge che a differenza dei secoli passati, oggi le società mutano a una velocità imbarazzante, non si può ragionare sempre in termini di risoluzione dell’emergenza, nell’incapacità di seguire i voli direzionali dei cambiamenti generazionali. 

Se nel Novecento il lavoro era il pilastro fondante delle famiglie, oggi non è più così. Il capitalismo ci ha “insegnato”, all’inizio di questo nuovo millennio, che le ricchezze economiche presenti sulla Terra in questo momento basterebbero a soddisfare i bisogni di tutti: si tratta di distribuire meglio. 

I Paesi più sviluppati non hanno bisogno di lavoro, hanno bisogno di tempo. L’idea di “vivere per lavorare” è oltremodo superata lasciando spazio a una visione un po’ più utopica in cui diventa fondamentale il tempo. Se non altro – tendenza degli Stati con una visione più longeva – sta iniziando a prendere campo l’idea di una settimana lavorativa corta.

Quanto cambia il mondo del lavoro

Il mondo del lavoro oggi è estremamente complesso: si sono perse e andranno a perdersi numerose professioni, sostituite dalle macchine o da visioni culturali nuove e diverse, ci si ferma a dare il “contentino” economico nelle tasche dei lavoratori così da non scatenare tensione sociale a causa delle loro condizioni. Nessun governo ragiona sull’eventualità che di qui a cinquant’anni resteranno ancora pochi lavori che abbiano necessità dell’uomo. 

L’attacco odierno al reddito di cittadinanza fa notare ancora una volta quanto i governi siano miopi davanti ai problemi più diffusi e più comuni. Innegabile il fatto che la struttura di questo strumento sia da riformare e ricostruire, ma altrettanto chiaro, per onestà intellettuale, è ammettere che la macchina del lavoro in Italia è estremamente ingolfata. 

Da un punto di vista delle assunzioni, c’è stato un cambio di tendenza rispetto agli anni passati. Il problema più sostanziale è l’aspetto salariale: l’Italia è ancora uno dei Paesi con i salari – non solo in calo rispetto a trent’anni fa – più bassi d’Europa. La presenza della criminalità organizzata e della “cultura” dell’evasione fiscale, spinge i datori di lavoro e gli imprenditori a guardare i propri interessi a scapito di quelli dei lavoratori. 

Oggi è consuetudine la paga globale, che nega numerosi diritti ai lavoratori, così come l’evasione fiscale attraverso il riciclo del contante. È ancora lontano il focus delle riforme su questi aspetti, soprattutto se pensiamo al salario minimo orario dei lavoratori, riformando i contratti collettivi nazionali, un’azione sul cuneo fiscale e soprattutto una presa di coraggio e l’intervento deciso sugli extraprofitti (di fatto una manovra di ridistribuzione della ricchezza).

Le nuove generazioni sognano un lavoro che possa permettergli di poter soddisfare sì i propri bisogni, ma anche che possa lasciargli il tempo per dedicarsi ai propri interessi. D’altronde la libertà individuale passa proprio da questo; inoltre, la flessibilità lavorativa e la possibilità di soddisfare i propri desideri ridurrebbe notevolmente lo stress e permetterebbe il superamento di tutta una serie di problematiche sociali come la crescita demografica, il PIL, la spesa pubblica, il benessere fisico e mentale. Sembra troppo “semplice”, ma per avere una società stabile e progredita è necessario che i suoi componenti siano felici, stiano bene e possano sentirsi liberi di agire per il proprio benessere.


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