Israele, i primi atti dell’estrema destra al governo

I primi giorni del nuovo governo israeliano sono bastati a portare a galla nuove tensioni interne, politiche e militari. Cosa sta succedendo in Israele?


Lo Stato di Israele sta vivendo uno dei suoi massimi momenti di tensione politica interna. Il nuovo governo di Benjamin Netanyahu, infatti, ha ricevuto dalla Corte Suprema israeliana una sentenza, votata da dieci degli 11 giudici, che definisce inammissibile la nomina a Ministro dell’Interno e della Sanità di Aryeh Dari, alleato fondamentale della coalizione di maggioranza.

La sentenza sarebbe motivata dai precedenti penali del leader del partito Shas, già accusato di frode fiscale – reato per il quale ha passato due anni in prigione – e di corruzione, accusa per la quale si era impegnato coi giudici a ritirarsi dalla politica. 

La situazione, adesso, risulta molto precaria, in quanto il premier Netanyahu, che finora non ha commentato la sentenza, potrebbe non avere i numeri per governare se l’alleato non dovesse far parte dell’esecutivo. Una posizione piuttosto scomoda, date anche le accuse di corruzione che lo stesso premier si ritroverebbe a fronteggiare.

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Tuttavia, lo scontro aperto tra i poteri esecutivo e giudiziario non si limita unicamente a questa sentenza. Una proposta di riforma della giustizia portata avanti dalla maggioranza, infatti, potrebbe dare alla Knesset (il parlamento israeliano) il potere di annullare le decisioni della Corte Suprema con una maggioranza semplice. Tra le sentenze, oltre a quella riguardante Aryeh Dari, risulta molto rilevante quella che definisce come non legittime le colonie israeliane presenti in Cisgiordania.

Considerando che il Paese non ha una vera costituzione scritta e fa spesso riferimento alle sentenze della Corte Suprema, questo implicherebbe un netto spostamento del potere a favore del governo. 80mila persone hanno protestato a Tel Aviv contro questa norma che il presidente della stessa Corte definisce un attacco alla democrazia portato avanti da una coalizione di partiti di estrema destra con nettissime posizioni anti-Palestina e fortemente religiose.

La tensione tra palestinesi e israeliani è già stata alzata dagli atti provocatori del ministro Itamar Ben-Gvir, noto per le sue posizioni particolarmente forti sulla situazione palestinese. Come primo atto di forza, il leader del partito Otzma Yehudit si è fatto scortare da parecchi agenti sulla Spianata delle Moschee di Gerusalemme, definendo il “Monte del Tempio” un luogo fondamentale per il popolo ebraico.

Questo atto ha lasciato il timore di una ulteriore prova di forza e nuove restrizioni nella zona, che contiene la moschea di al-Aqsa, alla quale i musulmani hanno per ora accesso libero. Dure, quindi, le risposte sia dell’Autorità Nazionale Palestinese e di Hamas, che della Giordania e della Turchia; perfino l’alleato principale di Israele, gli Stati Uniti, hanno definito questo gesto inaccettabile e contrario allo status quo. Il ministro ha risposto lasciando intendere che qualsiasi minaccia riceverà una risposta ferrea.

Tuttavia, l’azione che sembra essere decisamente più forte è avvenuta proprio in questi giorni: si tratta, infatti, del divieto di mostrare le bandiere palestinesi in pubblico, indicate come “simbolo del terrorismo islamico” direttamente dalle parole del ministro, che sembra essersi messo a capo dell’ala più estrema di un governo che era già stato definito il più a destra della storia di Israele. 

Il divieto di mostrare la bandiera palestinese sarebbe però illegittimo, in quanto la bandiera è stata riconosciuta come simbolo della Palestina anche a livello internazionale e potrebbe apparire come un preoccupante tentativo di cancellarne l’identità, secondo quanto dichiarato da Amnesty International.

Nel frattempo, le opposizioni mostrano la loro debolezza rispetto alle nuove posizioni del governo israeliano. Da un lato, Mansour Abbas che, nel tentativo di prendere parte alla coalizione contro Netanyahu con a capo il nazionalista religioso Naftali Bennett e il centrista laico Yair Lapid, ha portato a una perdita di credibilità di Raam – il partito di cui è leader – e a un indebolimento della Lista araba unita.

Dall’altro, Abu Mazen, il leader dell’ANP, che versa ormai in cattive condizioni di salute, e il cui tentativo di approfittare della precedente caduta di Benjamin Netanyahu e dell’elezione di Joe Biden alla Casa Bianca si è concluso in un nulla di fatto: Biden ha di fatto assunto un approccio molto distaccato in merito alla Palestina, limitandosi a ripristinare gli aiuti umanitari.

Inoltre, il comportamento della coalizione Bennett-Lapid ha mantenuto una politica di silenzio con l’ANP mentre la libertà di movimento e di attacco lasciata all’esercito di Israele ha portato a un rafforzamento di Hamas e delle militanze armate, soprattutto nei centri di Jenin e Nablus. Quest’ultimo centro, in particolare, sembra vivere letteralmente una doppia vita: di giorno, ogni cosa nella seconda città della Cisgiordania sembra scorrere normalmente.

Ma è di notte che tutto cambia, con le incursioni continue dell’esercito israeliano nella casbah, alla ricerca dei militanti della Fossa dei Leoni, il gruppo diventato icona della guerriglia palestinese, il cui ex leader, Ibrahim Nabulsi, viene considerato un eroe dai combattenti: preferì la morte alla resa ad Israele, che lo ha definito invece un pericoloso terrorista.

La situazione in cui versa Nablus non è certamente un unicum e la mano libera lasciata all’esercito israeliano porta danni fisici e psicologici anche alla popolazione civile, che finisce con l’essere coinvolta in combattimenti che vengono presentati come “lotta al terrorismo” e che mietono vittime anche tra gli innocenti. 

Una situazione che neppure gli accordi internazionali riescono a cambiare. L’Unione Europea chiede di firmare dichiarazioni di condanna della resistenza all’occupazione. Lo fa perché è Israele ad imporlo. Ma nessun palestinese può farlo.

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