elezioni midterm 2022

Elezioni di Midterm, l’America divisa di Joe Biden

Il risultato finale delle elezioni di Midterm avrà considerevoli ripercussioni sulla politica interna americana e sulla posizione degli Stati Uniti nello scacchiere geopolitico.


Mercoledì 16 novembre, i repubblicani hanno ottenuto – raggiungendo quota 218 seggi – il controllo della Camera, dove finora ad avere la maggioranza era stata la controparte democratica. Al momento, i democratici sono fermi a 212 seggi, sebbene ne rimangano ancora da assegnare cinque. Di fatto, il ritorno alle urne di martedì 8 novembre per le elezioni di midterm è un banco di prova per l’operato della presidenza Biden due anni dopo il suo insediamento alla Casa Bianca. A livello federale, l’obiettivo delle elezioni di Midterm è il rinnovo di tutti i seggi della Camera e di un terzo di quelli del Senato mentre, a livello locale, si vota per l’elezione di governatori e procuratori generali. 

Va precisato che negli Stati Uniti il mandato dei membri della Camera ha durata biennale e, durante il Midterm, i deputati cambiano tutti nello stesso momento, a differenza dei Senatori, la cui carica dura sei anni e solo un terzo dei membri deve ricandidarsi a metà mandato. In questo modo, il Congresso restituisce più o meno fedelmente una fotografia degli equilibri politici ad ogni elezione. Per le elezioni di Midterm, dunque, le cittadine e i cittadini americani si sono ritrovati ad eleggere, con un sistema maggioritario, 435 membri della Camera dei deputati e 35 senatori su 100.

L’affluenza alle elezioni di metà mandato è notoriamente più bassa rispetto a quella delle presidenziali e il loro risultato deriva per buona parte dalla popolarità del presidente in carica. Qualora il partito della presidenza perda la maggioranza, la principale ripercussione sulla politica interna avrebbe la forma di una vera e propria apoplessia politica, la quale costringerebbe l’attuale presidente a governare per ordini esecutivi e a districarsi tra i contrasti inevitabili e leggi divisive che potrebbero bloccare la macchina governativa. 

La posizione debole del presidente in carica durante le elezioni di metà mandato non è una novità, anzi, è un dato storico ampiamente consolidato. Secondo il Council of foreign relations, tra i più noti think tank statunitensi specializzato in politica estera e affari internazionali, il partito presidenziale tende a perdere in media 29 seggi alla Camera durante il Midterm.

Un altro dato storico riguarda il pronostico del partito vincitore, che è quasi sempre quello di opposizione. Infatti, le elezioni dell’8 novembre vedevano i repubblicani favoriti sia alla Camera che al Senato, in previsione della cosiddetta “marea rossa”, la quale avrebbe destabilizzato ulteriormente una politica interna severamente fratturata e predisposto l’elettorato ad un ritorno di Trump nel 2024. 

Ebbene, il Grand Old Party guadagna certamente terreno, ma con meno irruenza del previsto, in quanto il controllo riconquistato ha un margine ridotto rispetto a quanto preventivato. Dall’altra parte, invece, i risultati fin qui ottenuti dal Partito Democratico si sono rivelati più vantaggiosi di quanto fosse atteso, considerato che Biden ha trascorso gli ultimi mesi ad accusare il contraccolpo anticipato di un rimprovero quasi certo da parte dei suoi stessi elettori. 

In ogni caso, è innegabile come un quadro del genere si riveli fertile per il proliferare di aspri contrasti interni nella gestione della politica statunitense, riflesso del consolidamento della polarizzazione e della radicalizzazione del Partito Repubblicano. Quindi, al momento attuale, la differenza di seggi tra i due partiti non è così schiacciante come previsto dalla “marea rossa”, né sancisce la clamorosa sconfitta del partito del presidente in carica. 

Cosa comportano quindi questi risultati rispetto alle previsioni degli ultimi mesi? A livello di politica interna, con la maggioranza ottenuta dai repubblicani alla Camera, sarà complesso per Biden far approvare al Congresso leggi sui temi cardine del programma elettorale dei democratici, quali la transizione ecologica, l’immigrazione, la regolamentazione delle armi e la protezione del diritto all’aborto. Inoltre, il lavoro della commissione che sta indagando sull’assalto al Congresso del 6 gennaio 2021 potrebbe subire alterazioni a opera dell’ala repubblicana sostenitrice dell’ex presidente Donald Trump

A livello di politica estera, invece, la composizione del Congresso potrebbe avere notevoli ripercussioni sugli aiuti militari all’Ucraina. I repubblicani di Trump, fermi portatori dello slogan America first, ritengono che le risorse spese dagli Stati Uniti negli aiuti militari all’Ucraina siano eccessive e che possano essere ricollocate e impiegate per cause più vicine ai cittadini americani.

L’Ucraina, nonostante sia in piena controffensiva e necessiti più che mai dell’aiuto statunitense, viene percepita dall’elettorato americano lontana e strategicamente poco rilevante per giustificare la spesa dei suoi armamenti. Non è un caso che anche Biden stesso abbia più volte richiesto a Kiev di limitare la controffensiva e di ragionare sulla possibilità di un negoziato.

Di fatto, un governo così fratturato sullo scacchiere internazionale non porta alcun beneficio all’immagine degli Stati Uniti, il cui soft power viene inevitabilmente minato dalla disfunzionalità di un sistema delegittimato dall’interno, rendendo così più difficile l’azione statunitense in politica estera. 

Vale la pena soffermarsi sulle ragioni che hanno smentito il pronostico sulla vittoria schiacciante del partito d’opposizione alle elezioni di metà mandato. A mobilitare l’elettorato non sono state soltanto le più tradizionali questioni economiche, ma anche i diritti e la difesa del sistema democratico. Già dal 2020, le cittadine e i cittadini americani hanno dimostrato la tendenza a prediligere una presidenza stabile in risposta a un quadro geopolitico significativamente instabile. Tale tendenza è stata confermata dal risultato delle elezioni di Midterm, in quanto gli elettori preferiscono rivolgersi nuovamente al candidato che fornisce una leadership stabile e collaudata. 

I democratici di Joe Biden, a fronte di questo sentimento, hanno deciso di rendere la difesa della democrazia il principale tema del loro programma elettorale. Questa decisione non è stata esente da critiche: l’opinione pubblica ha aspramente criticato la disattenzione dell’establishment nei confronti delle cosiddette kitchen table issues, ovvero le questioni strettamente interne riguardanti da vicino l’elettore statunitense, così come l’aver banalmente declassato le posizioni conservatrici dell’avversario repubblicano a semplici espressioni della tendenza estremista assunta dal Partito dell’ex presidente negli ultimi anni.

D’altra parte, lo stesso Partito Repubblicano non manca di autocritica. Mitch McConnell, noto membro dei repubblicani, ha sottolineato come questi abbiano reso una performance scadente dal momento che l’impressione che l’elettorato ha del partito è negativa, in quanto spesso associato a caos generale e colpevole di aver capitolato più volte a Washington. Per questo, gli elettori naturalmente «si sono tirati indietro».

In ultima analisi quindi, l’elettorato americano, laddove i seggi sono effettivamente competitivi, anche questa volta tende a preferire candidati che accettano le regole del gioco democratico, rifuggendo da posizioni fondamentaliste.

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