Skopje, quando la voglia di emergere sfocia nel kitsch

La fine dei regimi dispotici segna sempre l’inizio di una rinascita per piccole nazioni fino a quel momento rimaste nell’ombra. Un proposito spesso raggiunto con risultati inattesi, come nel caso della capitale macedone.


La socializzazione, nel mondo in cui viviamo, ha sempre favorito in maniera più o meno spontanea il sorgere di marcate differenze tra culture, nazioni, popoli. Antichi contro moderni, grandi contro piccoli, ricchi contro poveri. Dicotomie evidenti, in grado di indirizzare il corso della storia, basate su differenze al di fuori del controllo umano. La disponibilità di ingenti risorse naturali ha sovente accelerato la rapida ascesa economica e sociale di tante nazioni; diversamente, numerose dispute di matrice etno-geografica ne hanno rallentato la crescita. 

Ci sono Paesi che per secoli hanno vissuto nell’ombra di qualcun altro prima di risalire la china e affacciarsi al mondo, attanagliati da regimi dispotici dove la megalomania dei singoli ha tarpato le ali al popolo. Un esempio lampante è la Cina, da qualche decennio a questa parte protagonista di uno sviluppo irrefrenabile. Nello scandagliare alcuni casi degni di nota, si rileva una costante: i Paesi emergenti si ispirano ai più affermati tentando di ricalcarne le gesta, anche a costo di snaturarsi e banalizzare le loro culture millenarie.

Grossolanamente potremmo definirlo “effetto America”, un insieme di pratiche aleatorie sintetizzate nel mostrarsi grandi, migliori, al livello degli altri. Ciò che conta è l’immagine. D’altronde ciò si verifica da sempre su scala ridotta tra gli uomini. Il povero cerca di emulare il ricco, vestire come lui, scimmiottare i medesimi stili di vita e modelli di consumo indisciplinati.

Quando prevale il desiderio di impressionare 

Nell’ultimo secolo lo sviluppo delle telecomunicazioni ha ridotto le distanze fisiche generando un confronto incessante tra realtà sconosciute. Rivalità latenti deviate nel proliferare di edifici, monumenti e siti di interesse in grado di collezionare record. Iniziative propinate da personaggi del tutto discutibili, esercizi di stile dettati da manie di grandezza, talvolta con risultati grotteschi. Basti pensare all’Országház, l’immensa sede dell’assemblea nazionale ungherese affacciata sulle sponde del Danubio a Budapest, o al Casa Poporului, il mastodontico palazzo del governo rumeno a Bucarest, entrambi concepiti in seguito alla caduta di regimi secolari e limitanti.

In altri casi, come nei Paesi arabi, il desiderio di esporsi al mondo è stato affrontato in maniera più ragionata. La modernità non è andata a intaccare l’autenticità della cultura locale, piuttosto l’ha valorizzata. Città come Dubai, Abu Dhabi, Doha o Kuwait City sono riuscite a rinnovare velocissimamente la loro immagine sfoggiando grattacieli scintillanti, immensi centri commerciali e isole artificiali in aree a essi dedicati. Al contempo hanno preservato i loro nuclei storici, ristrutturando i vecchi quartieri senza intaccarne lo charme

Infine si rilevano dei modelli di sviluppo scellerato, dove l’imminenza di eventi specifici ha indotto la concentrazione delle risorse e dello sfarzo in pochi luoghi, in netta antitesi con la situazione socio-economica diffusa nel resto del Paese. Viene immediatamente alla mente Baku, l’avveniristica metropoli dell’Azerbaijan con le sue architetture futuristiche in contrasto con le torri in pietra e i palazzi signorili, o capitali degli stans quali Ashgabat (Turkmenistan) o Astana (Kazakistan), all’apparenza decisamente troppo decontestualizzate in confronto al territorio circostante. 

Il caso “Skopje 2014”

Un caso su tutti, però, si distingue per i risultati raggiunti. Risultati molto scostati dal proposito iniziale, sfociati nel kitsch. Si tratta di Skopje, la capitale della Macedonia del Nord, la nuova denominazione assunta un paio d’anni addietro. 

Nell’immaginario collettivo continua a essere identificata semplicemente come Macedonia, quando in realtà questo nome fa riferimento a una regione estesa oltre il confine greco. Proprio la Grecia ne ha rimarcato la paternità, ottenuta nel 2019 grazie alla firma del Trattato di Prespa dopo mesi di manifestazioni a Piazza Syntagma da parte dei cittadini. L’ennesimo cambio di identità in seguito all’indipendenza ottenuta nel 1991 come FYROM (Former Yugoslavian Republic of Macedonia). 

Le dispute sul nome, probabilmente, sono state il male minore per una piccola repubblica emarginata e sconosciuta a livello internazionale. Eppure nel corso della sua storia ha dato i natali a personaggi di spicco come Alessandro Magno (detto appunto il Macedone) e Anjeze Gonxhe Bojaxhiu, conosciuta come Madre Teresa di Calcutta. 

Come la maggior parte delle nazioni appena liberate da un regime decennale, anche la Macedonia ha provato a promuovere la propria immagine e aprirsi al mondo. A rendersene fautore Nikola Gruevski, primo ministro in carica dal 2006 al 2016. Appoggiato dal suo VMRO-DPMNE (Organizzazione Rivoluzionaria Interna Macedone – Partito Democratico per l’Unità Nazionale Macedone), ha portato avanti il progetto “Skopje 2014 riscontrando sin da subito lo sfavore da parte delle opposizioni guidate dal SDSM (Unione Socialdemocratica di Macedonia). Un piano ambizioso, da molti considerato sproporzionato ed eccessivamente esoso per una nazione con ben altre problematiche sulle quali concentrare l’attenzione nell’immediato. 

L’obiettivo di “Skopje 2014” volgeva a rafforzare il senso di identità nazionale, ripercorrendo i principali passaggi storici dall’antichità al Medioevo fino ai giorni nostri, grazie a una serie di edifici, monumenti e artefatti concentrati nel cuore della capitale. Il tutto a due passi dal Stara Carsija, il vecchio bazar, nucleo originale della città. Il costo stimato si aggirava intorno agli ottanta milioni di euro, quello effettivo è risultato circa dieci volte la cifra preventivata. Abbastanza per scatenare il malcontento burrascoso degli oppositori e quello più silente della gente comune.

Un progetto confusionario 

A Gruevski, evidentemente animato oltre misura dall’entusiasmo, sono sfuggiti alcuni particolari. Innanzitutto Skopje sorge su un’area ad alto rischio sismico. I suoi abitanti hanno ancora impresso nella memoria il terribile terremoto del 1963. Inoltre, la maggior parte dei nuovi edifici si districa lungo gli argini del fiume Varna, a sua volta in una zona acquitrinosa e soggetta a frequenti smottamenti. 

Ciò che colpisce maggiormente, però, è la natura dei nuovi palazzi e il numero delle statue. All’ignaro visitatore, magari non a conoscenza di questa ventata di rinnovamento pianificato a tavolino, un primo sguardo potrebbe suggerire una placida concentrazione di edifici storici di rilievo. Osservandoli un po’ più da vicino, si evince benissimo la recente rievocazione in chiave moderna seppur ricalcando le forme neoclassiche. Anzi, a dirla tutta, vari stili si mescolano indisciplinatamente senza armonizzarsi con i quartieri limitrofi. 

Le geometrie dominanti rimandano a templi greci, teatri romani, statue medievali, ponti in stile rinascimentale. Marmo fuori, vetro dentro. A uno sguardo più aguzzo non sfuggono cavi, faretti al led, sistemi di sorveglianza maldestramente camuffati con lo scopo di far percepire solo le forme classiche. Un tentativo sfociato chiaramente nel kitsch. I detrattori non si sono risparmiati, definendo queste opere “degne di Las Vegas” più che di una capitale balcanica nel cuore di un antico impero.

Non sono mancate le proteste da parte della popolazione. La più nota è stata ribattezzata Colorful Revolution, culminata con il lancio (in segno di disapprovazione) di gavettoni pieni di vernice colorata contro le linde facciate dei palazzi e le lucide statue levigate. 

Una collezione di architetture improbabili 

Passeggiando in questo salotto urbano, facile da confondere con un set cinematografico o un parco divertimenti, è impossibile non notare alcuni edifici che si distinguono più degli altri. A partire dal Museo di Archeologia, il cui colonnato ricorda il Partenone di Atene, l’unico elemento discordante sono le scure vetrate a specchio. Le forme si fanno più spigolose nel Museum of the Macedonian Struggle (letteralmente il “museo delle fatiche”) nonostante a svettare sia la cupola semitrasparente in vetro colorato. 

Tra un museo e l’altro trova spazio anche l’Agenzia per le Telecomunicazioni Elettroniche, la cui sede rammenta edifici coloniali olandesi in Asia, oltre alla Polizia Finanziaria e al Ministero degli Affari Esteri che condividono una sorta di teatro-centro commerciale contornato da statue in marmo e due cupole in vetro e acciaio. 

Sembrano sfidarsi uno accanto all’altro i tre ponti: Art Bridge, Eye Bridge e Freedom Bridge. I primi due vantano una trentina di statue in ottone a testa mentre l’ultimo sfoggia elementi che rimandano al Rococò. L’Art Bridge, inoltre, si attesta il titolo di “unico ponte al mondo con sopra una fontana”. 

Un cromatismo lattiginoso caratterizza le troneggianti statue di Giustiniano e dello Zar Samuele così come il gazebo in muratura e la porta d’ingresso a Macedonia Square. In quest’ultima non può sfuggire la fontana centrale che fa contorno a un obelisco intagliato. In cima campeggia trionfante la scultura dedicata a un anonimo “guerriero a cavallo”, chiaramente identificato con Alessandro Magno pur non facendolo figurare ufficialmente. A completare l’ambiente ci pensano le decine di Double Decker, i classici bus a due piani londinesi acquistati per il trasporto pubblico, e un galeone in muratura sulla sponda del fiume all’interno del quale è ospitato un pub.

di Silvano Taormina


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