Milano, se la cronaca priva le donne del diritto di scegliere

La vicenda del piccolo Enea lasciato alla culla per la vita di Milano ha innescato una narrazione giornalistica che, ancora una volta, priva le donne del diritto a disporre liberamente della loro vita.


«Ciao mi chiamo Enea. Sono nato in ospedale perché la mia mamma voleva essere sicura che era tutto ok e stare insieme il più possibile. La mamma mi ama ma non può occuparsi di me».

Queste le parole scritte su un foglietto trovato insieme al bambino appena nato che la sua mamma ha deciso di lasciare la domenica di Pasqua alla culla per la vita attiva dal 2007 presso il Policlinico di Milano. 

Parole che sarebbero dovute restare private e riservate a quel bambino ma che immediatamente sono state diffuse e strumentalizzate dai media e perfino da personaggi noti, degenerando in una narrazione giornalistica spietata e priva di ogni considerazione per le vite umane: quella della mamma e quella del bambino, di cui si stava parlando.

Il giorno successivo, infatti, imperversavano titoli di giornali con frasi d’effetto, i cosiddetti clickbait, che tuttavia mal si prestavano a raccontare con obiettività quanto accaduto. 

A destra e a manca, si è continuato a parlare del piccolo Enea come di un bambino abbandonato o nato solo, offrendo così un’immagine distorta della realtà dei fatti e contribuendo a stigmatizzare e colpevolizzare la donna che aveva scelto di non riconoscerne la maternità. 

Nessun rispetto, dunque, per la scelta di una donna che meritava silenzio e la garanzia dell’anonimato, peraltro prevista dalla legge.

Il parto in anonimato è un diritto 

La legge italiana riserva particolare attenzione alla tutela della maternità, riconoscendo una serie di diritti tanto alla madre quanto al bambino, di cui il diritto all’anonimato è un’esemplificazione. 

Il DPR 396/200 al comma 2 dell’articolo 30, infatti, garantisce il diritto alla riservatezza delle generalità della donna che non intende, per le più svariate ragioni, procedere al riconoscimento del bambino. 

In tal caso, nell’atto di nascita che verrà reso da un medico o un’ostetrica, verrà indicato «nato da donna che non consente di essere nominata». Conseguentemente, qualora i genitori non procedano alla dichiarazione di nascita del bambino entro il termine di dieci giorni, per quest’ultimo viene dichiarato lo stato di adottabilità e si procede all’individuazione di una coppia idonea all’adozione. 

L’istituzione delle culle per la vita rappresenta uno dei modi che tutelano il diritto alla riservatezza della madre che non può o vuole procedere al riconoscimento del bambino e, al contempo, garantiscono e offrono la cura e la sicurezza di cui il minore ha bisogno e diritto. 

Le culle per la vita, che attualmente ammontano a circa una cinquantina in tutta Italia, sono strutturate in modo da garantire una pronta assistenza per la tutela dell’integrità e della salute fisica del neonato. 

Sono, infatti, dotate di dispositivi che consentono che il bambino venga adeguatamente riscaldato e offrono un presidio di controllo costante durante l’arco dell’intera giornata in collegamento con il personale medico-sanitario. 

La mamma che intende avvalersene, dopo aver individuato il punto più vicino, può recarsi sul luogo, premere il pulsante che permette l’apertura di una finestra in cui poter lasciare il bambino e attendere che la stessa si chiuda così da porre il bambino al riparo e garantire l’immediato intervento del personale preposto alla sua assistenza. 

Abbandonato o affidato?

La mamma di Enea non ha commesso alcun reato. Al contrario, ha esercitato un diritto espressamente sancito dalla legge. Lo ha portato per nove mesi in grembo, lo ha partorito in una struttura sanitaria accertandosi che fosse in salute e ha, poi, scelto di affidarlo alle cure e alla protezione del personale sanitario preposto, permettendogli di poter ricevere l’amore e l’educazione di una famiglia. 

Eppure, la narrazione che ne hanno riportato i media dipinge la donna come una madre “sbagliata” che ha compiuto una scelta contro natura, quella di abbandonare il proprio figlio. È allora corretto in questo caso parlare di “abbandono” come gran parte dei media hanno indisturbatamente fatto?

Il progetto ThePeriod (su Instagram theperiodoff), ideato e diretto dalla giornalista Corinna De Cesare, ha sollevato la questione riportando la definizione letterale del verbo abbandonare presente sul dizionario che ne fornisce il significato di «lasciare qualcuno senza aiuto o protezione». 

Anche Luciana Littizzetto, pochissimi giorni fa, ha voluto scrivere e leggere in diretta tv una lettera dedicata al piccolo Enea a cui si è rivolta parlando del gesto della mamma come di «una catena d’amore» perché la sua mamma non lo ha abbandonato bensì lo ha affidato, spiegando che «affidare significa avere così tanta fiducia nell’altro da chiedergli di custodire la cosa che ti sta più a cuore».

La narrazione violenta di una scelta

La mancanza di attenzione da parte dei media nella scelta di parole consone alla descrizione del fatto contribuisce a viziare l’opinione pubblica alimentando giudizi di colpevolezza nei confronti delle donne che vogliono e devono disporre liberamente del loro corpo e scegliere consapevolmente la loro vita. 

E non è nemmeno la prima volta che i giornali forniscono una visione della donna così fortemente intrisa di sessismo, dipingendola come “sbagliata”, anziché vittima, una donna che non si piega e non si sottomette al patriarcato ma, al contrario, si ribella alla concezione socialmente condivisa che la vuole madre e moglie obbediente. Ancora una volta, si assiste all’oggettivazione del corpo femminile, concepito come un mero contenitore, enfatizzando i connotati domestici e materni della donna. 

Di fronte a tutto il clamore suscitato dalla diffusione e dalla gestione della notizia, l’anonimato su cui avrebbe dovuto fare affidamento la donna si è dissolto nello stesso momento in cui non si sono osservati silenzio e rispetto per una scelta estremamente personale e intima. La notizia è, infatti, diventata alla mercè di tutti e chiunque si è sentito in dovere di dire la sua, investigando, anticipando e giudicando le motivazioni che hanno sorretto la scelta. 

Tra questi, non è mancato chi, come il conduttore Ezio Greggio, ha rivolto un appello direttamente alla donna chiedendole di tornare sui suoi passi, offrendole anche aiuto economico per assolvere alla sua funzione di madre perché Enea, a sua detta, ha bisogno della sua vera mamma. 

Dagli appelli diffusi sui canali tv e social sono immediatamente e facilmente desumibili due considerazioni. 

In primo luogo, la scelta della madre di abbandonare il bambino sarebbe esclusivamente dettata da ragioni di carattere economico, risolte le quali la donna sicuramente potrà e vorrà prendersi cura del bambino, ignorando, invece, la complessità e la natura delle motivazioni che possano aver spinto una donna a compiere una scelta simile per cui, comunque, nessuno dovrebbe arrogarsi il diritto di proferire parola.

In secondo luogo, colpisce il ricorso, nel corso dell’appello, all’affermazione “madre vera” che ha sollevato non poche polemiche. 

Al di là delle intenzioni, di cui non si discuterà in questa sede, con cui è stato lanciato il messaggio, è emersa non solo la presunzione di sapere quali motivazioni abbiamo guidato il comportamento della donna ma, al contempo, si è scatenata la reazione dei genitori adottivi, molti dei quali sono insorti in massa sui social. 

Cosa rende vera una madre? Sono soltanto il concepimento e il parto a rendere tali due genitori? E soprattutto, chi può arrogarsi il diritto di definire una donna come una madre vera?


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