Passione true crime: il Dahmer effect e la spettacolarizzazione del dolore

Ormai in tutte le piattaforme di streaming troviamo una ben nutrita sezione true crime. Forse il fascino per qualcosa di spietato e spaventoso fa proprio parte della nostra natura. Serie TV, documentari, podcast: ce n’è per tutti i gusti e per ogni momento della nostra giornata.


È da poco conclusa la serie tra le più seguite di sempre: Dahmer – Mostro: la storia di Jeffrey Dahmer, ideata da Ryan Murphy – autore di altri prodotti come American Horror Story (AHS) e American Crime Story – e Ian Brennan. Una serie TV molto seguita che racconta la storia del tristemente noto Jeffrey Dahmer, serial killer di Milwaukee che faceva a pezzi le sue vittime, praticando anche atti di necrofilia e cannibalismo. I suoi omicidi furono compiuti tra il 1978 e il 1991.

La serie ha visto una magistrale interpretazione di Evan Peters che ha convinto tutti riaccendendo l’interesse verso l’attore, già noto per altre sue interpretazioni proprio in AHS. In contrasto al lato puramente cinematografico, la serie ha stimolato in un certo tipo di pubblico che tende a mitizzare qualunque novità (fenomeno comune ormai frequente negli ultimi anni) la creatività sui social. Si è dato il via a vari video pieni di ilarità basati su fatti realmente accaduti, ma vissuti dai personaggi della serie TV e richiamando alcune scene della serie. Per non parlare della sfida che spopola su TikTok, sul guardare le foto reali delle vittime presenti su Google e mostrare poi la propria “reaction“.

Non sono mancate le critiche alla serie proprio da parte delle famiglie delle vittime. In particolare, le critiche all’opera targata Netflix sono arrivate da Rita Isbell Lindsey, la sorella di Errol Lindsey, una delle vittime di Dahmer, strappato alla vita all’età di 19 anni. Rita Isbell Lindsey ha espresso il proprio dissapore, sottolineando quanto sia «triste che stiano semplicemente facendo soldi con questa tragedia».

Rita Isabell è nota per la sua dichiarazione “fuori controllo” durante il processo a Dahmer nel 1992, appena prima che il cannibale di Milwaukee fosse condannato a scontare 15 ergastoli. La testimonianza di Rita appare nell’ottavo episodio della serie TV Lionel.

Diventa quasi impossibile parlare di insensibilità per una società che ormai è assuefatta dalla violenza: si pranza guardando programmi su omicidi, pubblicità di bambini che muoiono di fame, interviste a familiari spezzati dal dolore della perdita del proprio caro, tutto questo facendosi passare il sale a tavola per poi addormentarsi tra le note parlate di un podcast che analizza nel dettaglio i peggiori delitti della storia.

Il pubblico stufo dei prodotti di fantasia nei quali ha visto di tutto, adesso chiede emozioni forti. E cosa c’è di meglio della realtà?

Genere true crime, una miniera d’oro

Ma la serie Dahmer – Mostro: la storia di Jeffrey Dahmer, è effettivamente solo la punta di un iceberg fatto di prodotti true crime. In particolare la piattaforma Netflix contiene centinaia tra serie TV, film e documentari di questo genere.

La fortuna del true crime affonda nel malsano piacere del pubblico nel vedere prodotti che raccontano fatti raccapriccianti e soprattutto storie di serial killer che in un modo o nell’altro sono entrati nel nostro vissuto. 

Come visitatori di uno strano zoo, ogni programma è una gabbia che osserviamo spasmodicamente tentando di carpire il più possibile dalla vicenda, spingendoci a cercare sempre di più; tanto che possiamo trovare più materiale dello stesso personaggio o della stessa vicenda. 

Il true crime non è altro che infotainment: come un’indagine giornalistica, si fonda su notizie reali, ma queste vengono selezionate, montate, talvolta ingigantite, per intrattenere lo spettatore. Che sia un podcast o una serie antologica di stampo documentaristico, il true crime attinge sempre alla verità, ma si premura di sceglierla con cura.

Potremmo tentare di storicizzare questa stravagante passione collocandola tra il XV e il XVI secolo, parallelamente all’avvento della stampa. L’enfasi religiosa (il peccato che comporta necessariamente una punizione) e “moraleggiante” di questi primi esperimenti rifletteva l’epoca in cui venivano scritti. La stessa pratica dell’assistere alle esecuzioni pubbliche è il comportamento voyeuristico verso una scena raccapricciante che infine non ci ha più abbandonato fino ad oggi.

Col tempo, il focus si è spostato su tematiche diverse, intrecciandosi con il giornalismo e il sensazionalismo della narrazione aumentò. Esiste, in effetti, un padre del true crime e si tratta dello scrittore Truman Capote, che nel 1966 scrisse A sangue freddo, un romanzo non-fiction che riporta fatti reali (un quadruplice omicidio) mantenendo una prospettiva distaccata, fornendo dettagliate descrizioni scaturite dall’assidua frequentazione tra Capote e i protagonisti delle vicende. Per la stesura impiegò circa sei anni tra ricerche e analisi psicologiche dell’omicida che ne erano il punto focale di interesse per il lettore.

Sconcerto e piacere: la spettacolarizzazione del dolore

Cosa spinge qualcuno ad appassionarsi a un prodotto true crime? C’è sicuramente la  volontà di seguire e preferire storie e fatti reali piuttosto che prodotti filmici di fantasia. La frase magica «tratto da una storia vera» tende sempre a incuriosire e ad attrarre lo spettatore.

Anche i classici programmi TV hanno imparato ad attingere alla cruda realtà per fare salire l’audience. Prendiamo ad esempio il delitto di Cogne che vide protagonista Annamaria Franzoni, accusata e condannata per aver ucciso suo figlio piccolo, o l’atroce incidente della Costa Concordia di cui abbiamo avuto programmi di approfondimento e un affascinante podcast di Pablo Trincia (nonché autore del libro-inchiesta Veleno – una storia vera sul caso dei Diavoli della bassa modenese).

Analisi dettagliate, vere e proprie autopsie narrative presenti in programmi come Un giorno in Pretura: la strage di Erba compiuta dai coniugi Rosa e Olindo, i tanti casi di femminicidio, rapimenti o sparizioni nel nulla. In questo caso è fresca di uscita la serie TV sul caso di Emanuela Orlandi The Vatican girl, proprio su Netflix

Sono eventi che vengono seguiti con molto accanimento, come per confrontarsi con altri dolori, come a voler chiedere l’ennesima conferma del potenziale malvagio che è già noto nell’essere umano.

L’orrendo che affascina: la teoria del sublime di Edmund Burke

L’orrore sconvolge, fa salire i brividi, ma ne siamo misteriosamente affascinati. Una sensazione che si traduce con la fascinazione di qualcosa di spaventoso, attrazione per qualcosa che non ci tocca personalmente: una sensazione simile al concetto di sublime teorizzato da Edmund Burke, politico e filosofo, nonché uno dei principali precursori ideologici del Romanticismo inglese.

Secondo l’idea di Burke è sublime «tutto ciò che può destare idee di dolore e di pericolo, ossia tutto ciò che è in un certo senso terribile o che riguarda oggetti terribili, o che agisce in modo analogo al terrore»; il sublime può anche essere definito come «l’orrendo che affascina», delightful horror. La natura, nei suoi aspetti più terrificanti, come mari burrascosi, cime innevate o eruzioni vulcaniche, diventa dunque la fonte del sublime perché «produce la più forte emozione che l’animo sia capace di sentire», un’emozione però negativa, non prodotta dalla contemplazione del fatto in sé, ma dalla consapevolezza della distanza insuperabile che separa il soggetto dall’oggetto.

Ed è probabilmente proprio questa forte emozione che spinge ad appassionarsi alle storie true crime, che sia un podcast, un documentario o una serie TV. Immaginare di carpire quella sensazione di dolore e di orrore, e al contempo avere la concezione di essere solo spettatori passivi di un dolore che possiamo immaginare di capire, ma che comunque non ci tocca da vicino.

True crime da vedere e da visitare

Non poteva mancare l’esperienza museale a tema crime. Oltre ai conosciutissimi musei delle torture presenti in molti paesi, dove possiamo passeggiare tra uno strumento di tortura medievale e l’altro, esistono anche musei del crimine come il The True Crime Museum ad Hastings nell’East Sussex, Inghilterra. 

Ma possiamo andare più vicino come in quello di Torino, il Museo di Antropologia Criminale Cesare Lombroso: «Il Museo di Antropologia criminale espone le collezioni raccolte prevalentemente per gli studi di Cesare Lombroso nella seconda metà dell’Ottocento e i primi del Novecento, composte da preparati anatomici, disegni, fotografie, corpi di reato, produzioni artigianali e artistiche, anche di pregio, realizzate da internati nei manicomi e nelle carceri».


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