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Liz Truss, la riforma fiscale e la reazione dei mercati

La riforma fiscale annunciata dalla nuova premier britannica Liz Truss, fondata su un corposo taglio del prelievo sui ceti abbienti, è stata ritirata. Quali sono le conseguenze?


Il cuore del problema, in questo e in futuri casi simili, è la credibilità delle misure, tralasciando la questione se la misura in questione sia o meno adeguata. Una riforma fiscale, una finanziaria, così come una manovra economica devono risultare credibili per gli operatori sui mercati, per chi investe in un Paese. Il nocciolo della strampalata vicenda britannica – che vede come protagonista il governo guidato dalla nuova premier Liz Truss – verte proprio sulla mancanza di credibilità di quanto proposto.

Procedendo in ordine cronologico, la scelta della riforma fiscale, con abolizione dello scaglione del 45% per i redditi sopra le 150.000 sterline annue, è stata annunciata il 23 settembre dal Ministro delle Finanze, il Cancelliere dello Scacchiere Kwasi Kwarteng. Questa misura era contenuta in un pacchetto di tagli fiscali che ammontava complessivamente a 45 mld di sterline e nel quale il taglio dello scaglione sopracitato costituiva circa 2 mld della cifra complessiva. Il pacchetto rappresentava il più grosso taglio fiscale degli ultimi cinquanta anni.

Particolare non secondario, tuttavia, era l’assenza quasi completa di copertura finanziaria di queste misure, finanziate in deficit, con un pesante aggravio nei confronti delle non floride finanze pubbliche britanniche. Dal momento dell’annuncio è iniziata la tempesta sui mercati.

Alla relativa apertura il lunedì successivo (l’annuncio era avvenuto, saggiamente, di venerdì), due dati balzavano all’occhio: il crollo verticale del valore della sterlina e l’esplosione dei rendimenti dei titoli di Stato britannici. La sterlina, nella mattinata di lunedì, era crollata a un valore di 1,035 sul dollaro, il più basso dal 1971, mentre il rendimento dei titoli di Stato a dieci anni aveva sfondato il 4%, arrivando al 4,13% contro il dato preannunciato del 3,5%.

Quella che stava andando in scena era la peggiore crisi sul mercato finanziario britannico dalla fuoriuscita dal Sistema Monetario Europeo (SME) del 1992. Il dato sul rendimento dei titoli di Stato non si è neanche fermato e nel corso della settimana ha continuato a salire, segnando un record degno di nota: l’interesse dei titoli a scadenza quinquennale ha raggiunto il 4,5%, superando il rendimento dei titoli italiani (4%) e greci (4,1%). Secondo gli investitori, il Regno Unito, sul medio termine, era più rischioso della “periferia” dell’Eurozona.

Il 27 settembre accadeva l’impensabile: Reuters pubblicava una dichiarazione in cui un portavoce del Fondo Monetario Internazionale (FMI) si diceva preoccupato per le misure fiscali prese dal Governo britannico. In particolare, nella dichiarazione si indicava come il pacchetto di misure avrebbe non solo aumentato le diseguaglianze, ma avrebbe potuto minare alla radice la politica monetaria portata avanti dalla Bank of England (BoE): “Date le elevate pressioni inflattive in diversi paesi, incluso il Regno Unito, non raccomandiamo larghi e non mirati pacchetti fiscali in questa congiuntura, perché è importante che i propositi della politica fiscale non si sovrappongano a quelli della politica monetaria”. 

Per capire al meglio la dichiarazione del FMI, bisogna comprendere quale sia la “congiuntura” di riferimento. L’economia mondiale, e l’economia occidentale in particolare, sta affrontando – per una serie di ragioni analizzate in precedenza – una forte espansione dell’inflazione, che nel Regno Unito si aggira intorno al 9,9%. Per contrastarne gli effetti, le banche centrali stanno mettendo in campo misure che “raffreddino” l’economia drenando liquidità, soprattutto aumentando i tassi di interesse.

Una misura fiscale come quella annunciata dal Governo di Liz Truss avrebbe avuto un effetto esattamente opposto: avrebbe aumentato la liquidità a disposizione, surriscaldando l’economia e sostenendo la domanda che si vorrebbe raffreddare. Saremmo in presenza di due politiche economiche contrastanti, con il Governo che annullerebbe gli effetti degli aumenti dei tassi fatti dalla BoE.

bank of england liz truss

A peggiorare il quadro sono arrivate, nel corso della settimana tra il 26 e il 30 settembre, le valutazioni di due delle principali agenzie di rating, Moody’s e Standard & Poor’s, circa l’affidabilità del debito britannico. Mentre la prima ha dichiarato che tagli di tasse non finanziati sono un rischio per la solvibilità del Paese, la seconda ha variato l’outlook del debito britannico da stabile a negativo.  

A far comprendere bene il rischio che hanno corso il Regno Unito e l’economia mondiale, è l’impatto che la riforma ha avuto indirettamente sui fondi pensione britannici. Questi ultimi hanno rischiato la scorsa settimana di fallire in massa; una massa, questa, che vale 1.700 miliardi di sterline e detiene titoli di ogni Paese del mondo. L’impatto di un crack sul settore dei fondi pensione sarebbe stato simile, se non peggiore, rispetto a quello della Lehman Brothers. Le ragioni delle difficoltà dei fondi pensioni sono spiegabili dall’utilizzo che fanno dei titoli di debito britannici, usati come garanzia, ovvero come “collaterale” per le proprie operazioni. 

Il crollo di questi titoli aveva sguarnito le garanzie per le operazioni e le società che forniscono assicurazioni, le cosiddette “clearing societies”, richiedevano ai fondi di mettere in pari la differenza creatasi; parità, questa, che i fondi sul breve non erano in grado di provvedere, da una parte, a causa della voragine lasciata dal crollo dei titoli britannici e, dall’altra, dalla scarsa liquidità degli investimenti effettuati. Il rischio di un fallimento era concreto.

A questo punto, i gestori dei fondi hanno deciso di contattare la BoE per metterla al corrente di quanto stava accadendo e del rischio di fallimenti in massa. La Banca centrale, il 29 settembre, conscia del rischio sistemico che una catena di fallimenti avrebbe rappresentato, è dovuta intervenire sui mercati, comprando Gilts (titoli di debito pubblico britannico) per sostenerne il prezzo. 

In particolare, la BoE ha messo in campo un’operazione di acquisto titoli della durata di circa due settimane, con una scadenza al 14 ottobre, per risolvere il problema sui titoli: “in linea con il suo obiettivo di stabilità finanziaria, la Bank of England è pronta a restaurare il funzionamento del mercato e ridurre ogni rischio di contagio alle condizioni di credito per imprenditori e famiglie del Regno Unito”. Nello stesso comunicato, per stroncare qualunque tipo di speculazione, la Banca chiarisce come saranno prese misure di ogni scala per arrestare il crollo di valore dei titoli britannici.

Naturalmente, come già indicato in alto, siamo in presenza di una politica non lineare di contrasto all’inflazione: se, da una parte, la Banca Centrale opera per ridurre l’offerta di moneta attraverso l’apprezzamento dei tassi di interesse, dall’altra parte la politica di sostegno ai Gilts è una forma di creazione di moneta immessa direttamente sul mercato. Detta diversamente, per risolvere i problemi creati da politiche fiscali non credibili, la BoE è costretta a intervenire vanificando parte della propria politica monetaria anti-inflattiva. 

L’epilogo della misura di taglio dello scaglione fiscale si è concretizzato la mattina del 3 ottobre, con l’annuncio del ritiro della riforma da parte del Ministro dello Scacchiere, confermato poco dopo dalla Premier Truss, nonostante la mattina precedente la stessa avesse ribadito la sua intenzione di procedere spedita con l’applicazione della misura. Le ragioni di tale ritiro, più che di natura economica, sono state determinate dalle condizioni politiche diventate scottanti per il Governo britannico: diversi membri autorevoli dei Tories avevano rilasciato dichiarazioni nelle quali avvisavano il Governo che non avrebbero votato la misura in Parlamento, mettendo a rischio i numeri della maggioranza. 

Ai travagli del Partito Conservatore si aggiungevano le proteste popolari per una misura che agevolava una fetta della società britannica privilegiata, mentre i ceti meno abbienti soffrivano gli aumenti del costo della vita. Infine, anche dopo l’intervento della BoE, le condizioni della Sterlina e dei Gilts tendevano a stabilizzarsi, ma non a recuperare, come se continuassero a vacillare in attesa di una soluzione. La soluzione salvifica è stata proprio il ritiro della misura, dopo la quale la Sterlina ha recuperato il proprio valore sulla divisa statunitense, raggiungendo il cambio di 1,128 dollari per sterlina. 

Nonostante il ritiro della misura, è complicato intravedere un lieto fine. Le scelte di politica economica determinano, come abbiamo detto, la credibilità degli attori che le compiono. La credibilità del Governo britannico si è sostanzialmente azzerata dopo questa vicenda e la prova di ciò è nella notizia che Fitch ha degradato l’outlook sul debito britannico da stabile a negativo due giorni dopo (5 ottobre) il ritiro della misura da parte del Governo.

A ulteriore riprova delle difficoltà incontrate dal Governo Britannico sui mercati vi è il nuovo crollo dei gilts di ieri (10 ottobre). Il trentennale ha raggiunto nuovamente i valori di piena tempesta e a detta dei quotidiani finanziari questo dipenderebbe dalla scarsa fiducia sulle coperture annunciate dal Cancelliere dello Scacchiere, ma ancora non dichiarate. Quest’ultimo avrebbe anticipato la data di pubblicazione al 31 ottobre, dal 23 novembre iniziale – senza rassicurare, come è evidente, i mercati.

Secondo il Financial Times, il Governo non riesce a rasserenare i mercati che adesso vorrebbero, a maggiore tutela, che il programma di acquisti della BoE venisse prolungato oltre l’iniziale scadenza, il 14 ottobre. Addirittura anche lo stesso programma di acquisti della Banca Centrale non viene considerato sufficiente, venendo definito dalla Responsabile della Strategia sul debito pubblico britannico di HSBC “un cerotto”. La situazione è ormai un ginepraio difficile da risolvere.

Avere una forte credibilità sui mercati permette anche di potere mettere in campo misure che, ad altri attori, non sarebbero concesse: di questo abbiamo avuto una prova nei mesi del Governo Draghi in Italia. Perdere credibilità è estremamente semplice per i Governi, recuperarla è difficile. Una lezione che potrebbe fare comodo al prossimo esecutivo italiano, considerando anche che la Banca Centrale Europea (BCE) non ha tempistiche strette di intervento, come la sua omologa britannica.


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