Arte e lavoro: discussioni sull’essenzialità con Valentina Formisano

Continuano le interviste a tu per tu con i protagonisti del settore artistico, confrontandoci con loro partendo dall’indagine del Sunday Times Singapore che ha messo in evidenza la “non essenzialità” del lavoro degli artisti. Oggi parliamo con Valentina Formisano.


Nella scorsa intervista Jekaterina Saveljeva dice «al di fuori del settore principale, ci sono molti progetti, ma non pagano, e rendono difficile la sopravvivenza». Per questa ragione ho cercato di parlare con un’artista che lavora anche nel settore scolastico. Oggi parliamo con Valentina Formisano, artista visuale ed insegnante precaria dalle radici campano-marchigiane che vive e lavora a Roma.

Cos’è per te la pratica artistica? Parlaci un poco di te. «La pratica artistica, come dice la parola stessa, è un esercizio costante. Ammetto di non essere uno di quegli artisti che pratica notte e giorno ma è certo che il pensiero è sempre volto alla progettazione, all’ideazione, al concepimento di opere. Tutto quello che si vive, quello che si legge, vede e, specialmente, quello che si sogna durante la notte è argomento di costante riflessione. Dal punto di vista della realizzazione tecnica delle opere ciò che più mi interessa è la manualità.

Sono incisore e disegnatore. Amo i grandi formati e le sfide, i materiali difficili da utilizzare, il fatto di piegarli alle mie esigenze e di sfruttarli in ambiti differenti da quelli per cui sono stati concepiti. La realizzazione di opere handmade che avrebbero potuto essere fatte in maniera meccanica (magari utilizzando il digitale o altri macchinari) ma che esigono di essere prodotte attraverso il tempo, col dispendio di energia fisica. Voglio realizzare opere che contengano questo dispendio personale e qualche imperfezione, ma che nel complesso funzionino. Proprio come se fossero un corpo umano. Non a caso l’anatomia è uno dei miei campi di interesse. 

Tutto ciò che riguarda il corpo (inteso non tanto come forma esteriore ma come oggetto misterioso attorno al quale ruota il concetto di sacro) mi sfida e mi attrae come insetto verso la lampada. Il corpo, e con esso il dualismo vita/morte, sono i contenuti e la ricerca filosofica alla base della mia pratica artistica.

Qui potete trovare il mio più recente progetto di illustrazione dal nome “face/NOFACE”. È una serie di ritratti di icone pop contemporanee e non realizzate totalmente a penna biro attraverso delle illusioni ottiche: ogni volto è ottenuto tramite un assemblaggio di oggetti che ne descrivono la storia. Una sorta di ironica biografia disegnata».

Immagino tu sia a conoscenza del dibattito sull’articolo del Sunday Times Singapore che ha reso pubblica l’indagine sulla non essenzialità del lavoro degli artisti. Come ti ha fatto sentire? questo clima influisce sul tuo lavoro? «Il concetto di “essenziale” è, come quasi tutte le cose, assolutamente relativo. In tempo di Covid abbiamo visto catalogare alcuni negozi come dispensatori di generi “non essenziali” a fronte di altri che invece erano considerati essenziali. Se di primo acchito potremmo pensare che “essenziale” sia sinonimo di “necessario alla sopravvivenza fisica” (si pensi ai generi alimentari e quelli di prima necessità per la cura e la salute della persona) allora potremmo convenire sul fatto che anche senza l’arte, effettivamente, sia possibile sopravvivere.

Ma a ben vedere, la stessa definizione di essenzialità applicata ai negozi di alimentari è stata applicata anche, ad esempio, alle librerie. Questo mette in evidenza che dunque l’arte e la cultura contribuiscono alla vita anche in termini di diretta sopravvivenza (magari non fisica ma sicuramente psichica). L’umano è un essere contiguo e la sfera psichica non è disgiunta dal resto. Durante la pandemia, durante un periodo psicologicamente provante, le persone tutte hanno sentito sempre più l’esigenza di contornarsi di cose belle.

Non ho mai venduto tante illustrazioni come durante il lockdown e questo è assolutamente sintomatico di una condizione in cui, nonostante le ristrettezze economiche alle quali tutti andavamo incontro, il denaro veniva utilizzato per abbellire le proprie vite piuttosto che per altri tipi di beni più funzionali o utilitaristici.

Sono dunque vere entrambe le cose: si può sì (soprav)vivere senza l’arte, ma indubbiamente non si vive bene senza l’arte».

La politica e l’arte sono molto legate tra loro, non solo per via dei finanziamenti di progetti di pubblica utilitá. Nonostante la grande maggioranza degli studenti d’arte siano donne, le donne rappresentate nelle gallerie e in altre istituzioni sono una minoranza. Puoi darci la tua opinione riguardo l’accessibilità? «È possibile che quantitativamente le artiste donne rappresentate dalle gallerie siano in numero inferiore rispetto agli uomini, ma credo che il dato non dipenda assolutamente da una discriminazione di genere da parte dei galleristi o del mondo dell’arte. Credo altresì che questo dato non sia percepibile se non osservandolo dalle statistiche. Il web, Instagram, e tutti i canali (virtuali e non) attraverso cui è possibile venire a contatto con arte e artisti, offrono un panorama eterogeneo e variegato.

L’accesso ai circuiti artistici è complesso, difficile, determinato dal livello di pubbliche relazioni che gli artisti sono capaci di intessere col mondo circostante e con gli addetti ai lavori. Per questo ritengo si tratti di una pura questione di capacità comunicative personali, di intraprendenza, di perseveranza. Questa differenza statistica è quindi probabilmente imputabile ad altri fattori, che non sono io in grado di indagare con cognizione di causa.

Per quanto riguarda il discorso politiche e finanziamenti, come tutto ciò che è soggetto al contributo pubblico sono previsti bandi molto restrittivi e complicati da applicare.

L’arte è di per sé un concetto molto ampio. È ovvio che il pubblico debba favorire quei progetti che abbiano come conseguenza una ricaduta positiva sulla società, e non è automatico che ogni progetto artistico ce l’abbia. Sembra che dicendo “arte e cultura” si sia detto tutto. Ma non è così.

Mi sto specializzando in didattica e progettazione museale, sto studiando le caratteristiche dei bandi pubblici e la tipologia dei progetti presentabili. Benché il museo in sé sembrerebbe essere la quintessenza del concetto di cultura, è invece palese che la costruzione di questa cultura all’interno della società dipende solo e soltanto dalle modalità con le quali l’arte e le opere vengono somministrate al pubblico. Il museo da solo non basta. L’arte da sola non basta. Servono le metodologie.

Questo ragionamento è per concludere che non basta sentirsi artisti o dipingere quadri per pretendere che lo Stato ci aiuti. Lo Stato finanzia ciò che di queste produzioni può essere incanalato in un progetto che arricchisca ed educhi, che possa far evolvere la società. Diversamente, spogliato di questa funzione collettiva, il lavoro dell’artista è l’equivalente di un progetto imprenditoriale, privato, pari a quello di un qualunque professionista.

Lo Stato promuove ciò che produce ricchezza culturale, e specialmente ciò che produce ricchezza economica e lavoro per altri. L’arte, il più delle volte, è un processo personale e anche quando portato avanti da collettivi, non è certo un meccanismo che produce posti di lavoro per molti. Va da sé, dunque, che i finanziamenti pubblici siano limitati e restrittivi».

Ad oggi la rappresentazione visiva, le espressioni sonore, l’educazione, la formazione, la ricerca sociale e i mezzi di produzione collidono fortemente, eppure in Italia è stato detto pubblicamente “con l’arte non si mangia”, essere un artista non è considerato un lavoro vero e proprio e il sindacato degli Artisti è quasi assente, tranne in rari casi che coinvolgono attori e altri artisti dello spettacolo, ma anche lí il peso é quantomeno relativo. Posso chiederti di commentare questo? Come si puó tutelare e validare il lavoro di chi l’arte la studia e la fa? «Il problema non è che con l’arte non si mangia. Il problema è che con il lavoro non si mangia. Il problema è che con la maggior parte dei lavori è difficile per le persone andare avanti, specialmente in Italia. Quante persone sono costrette a fare doppi, tripli turni, a volte in nero, per riuscire a pagare un affitto? 

È dunque evidente che la questione sia molto più grossa. Ma il punto cruciale della questione è che chi studia e si forma nell’ambito artistico pretende di lavorare e di essere assorbito in un settore che, di fatto, non esiste.

Se in un paese in cima alle Dolomiti ci si specializza in immersioni subacquee e poi ci si lamenta di non trovare lavoro è evidente che il problema sia a monte. Il Paese non ha bisogno di tutti questi artisti. Il Paese ha bisogno di braccianti. Di operai di fabbrica. Se si insiste a specializzarsi in massa in ambiti umanistici (per i quali non esistono applicazioni lavorative concrete) è evidente che si incorrerà in questo tipo di problema.

Chi vuol essere artista sa bene, da che mondo è mondo, che per mangiare dovrà fare un ulteriore lavoro. Ma questa non è una triste prerogativa dell’artista per la quale scandalizzarsi e indignarsi: questa è la condizione di quasi tutti i liberi professionisti del nostro Paese, anche di quelli che si occupano di materie finanziarie.

Il problema è la disparità tra domanda e offerta: l’economia abbisogna di una cosa e noi pretendiamo di nutrirla con altro. Non è che quello dell’artista non venga considerato un “vero lavoro”. Non viene considerato vero lavoro ciò che non consenta guadagni continuativi e che non permetta di progettare un’esistenza stabile. Non è considerata “vero lavoro” nessuna attività che non dia alla persona un tetto sulla testa e del cibo a tavola ogni giorno e ogni mese, che, tradotto, vuol dire dignità».

Vuoi dare un suggerimento a chi studia o si approccia alla pratica artistica? «A chi intraprende un percorso di studi e di vita volto all’arte consiglio di prendere atto quanto prima della disparità tra il concetto romantico che intimamente ha dell’arte e il concetto realisticamente applicabile al concreto.

Se si vuol far sì che l’arte non resti una masturbazione privata del proprio piccolo ego o l’hobby della domenica, è opportuno iniziare ad intenderla come pratica volta alla creazione di un “valore” che sia indubbiamente di tipo culturale ma anche commerciale. L’idea puerile che l’arte debba essere svincolata dal vil denaro è presto smantellabile se solo si pensa a quanto veniva corrisposto nel passato ad artisti del calibro di Michelangelo o Raffaello per le loro opere. L’idea che l’arte non abbia prezzo è una banalità. Il valore delle cose, ivi compresi gli oggetti oltre ai beni immateriali, non è mai relativo alle qualità intrinseche ma condizionato da un contesto e dal mercato. Tutto lo è, sempre.

Dunque prima si comprende questo concetto, prima si riuscirà a incanalare il proprio lavoro, evitando il disastroso scontro col reale che è foriero di frustrazioni. L’arte non è ispirazione, non è pancia, non è fare ciò che mi va. Perlomeno non solo. L’arte è un progetto coerente con la realtà in cui si vive e quando non si guarda oltre il proprio recinto è quasi automatico che il proprio lavoro non esca da lì.


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