Naypyidaw, storia di una capitale birmana

Raccontiamo la fondazione di Naypyidaw, la capitale “fantasma” della Birmania che riflette il processo di costruzione di un’identità nazionale in rottura col passato.

«Il 6 novembre 2005, a un’ora astrologicamente propizia, le 6:37 del mattino, per ordine del generale supremo e senza alcun preavviso per il grande pubblico, i ministri diedero il via ai traslochi, con oltre un migliaio di mezzi militari che trasportavano documenti, macchine da scrivere e mobili fino a quello che era ancora un colossale cantiere»Thant Mint-U, L’altra storia della Birmania, p. 102.

Naypyidaw, l’attuale capitale del Myanmar, è situata in un’area al centro del Paese a metà strada tra Mandalay e Yangon, e a cinque ore di macchina da quest’ultima. La città (il cui significato del nome è “la capitale”) è stata fondata per esercitare un maggiore controllo sugli apparati statali e burocratici e per rendere il centro del potere una roccaforte il più possibile  immune da attacchi esterni. 

Nella fattispecie, le rivendicazioni della società civile (in occasione delle proteste di piazza del 1988 si era verificato un principio di  irruzione nel ministero della Guerra) e la vulnerabile posizione, da un punto di vista strategico geopolitico, della vecchia capitale Yangon hanno svolto un ruolo chiave al riguardo.

Il progetto di costruzione di una nuova capitale birmana era legato a un più vasto programma di epurazione (vedi ministri, polizia segreta) e a una messa in sicurezza dello Stato nella prospettiva di nuove elezioni, di una nuova costituzione e infine nell’ottica di una transizione verso un governo di relativa rappresentazione democratica. 

Tale programma di messa in sicurezza, voluto e orchestrato dal generale supremo Than Shwe, ebbe come segno tangibile la fondazione di una città a prova di rivoluzione. Difatti, la nuova capitale, con una superficie scarsamente popolata e attraversata da viali con venti corsie e principalmente composta da palazzi del governo isolati uno dall’altro da ampi giardini, era  abitata principalmente da personale amministrativo e militari. In altre parole gli spazi di Naypyidaw erano stati pensati per gestire in maniera capillare l’accesso alla città e scoraggiare qualsiasi tipo di attività non autorizzata

Al netto delle considerazioni strategiche, la fondazione di Naypyidaw va collegata anche a un processo di costruzione identitaria di tipo nazionalista: la memoria storica di cui si nutre ogni orgoglio nazionale andava rimodellata in un’ottica anticoloniale e di legittimazione storica. In primis ci si sbarazzava simbolicamente di una capitale (Yangon) che, essendosi sviluppata durante il regime coloniale britannico, suggeriva una continuità con un passato da cui ci si era formalmente liberati all’indomani dell’indipendenza dal Regno Unito, ottenuta il 4 gennaio 1948. 

Secondariamente, la ridenominazione internazionale della Birmania in Myanmar  garantiva una profondità temporale autolegittimante poiché creava un legame storico con gli antichi regni myanma che si erano succeduti nella valle dell’Irrawaday nel corso dei secoli, quali ad esempio il Myanma pyi (il paese myanma) o Myanma naing-ngang (conquiste myanma). 

Con  la fondazione di Naypyidaw, la giunta militare si accreditava come l’attore trainante di istanze modernizzatrici con forti connotazioni nazional militari, mostrando però dei limiti nell’approccio etnocentrico nel momento in cui all’interno di uno Stato nazionale multietnico (si contano circa 130 etnie) si continuava ad assegnare un ruolo di primo piano all’etnia birmana (la maggioritaria del Paese); al riguardo, questo tipo di sotto-testo etnico era funzionale a confermare e legittimare la leadership dei militari, molti dei quali provenivano da luoghi come Mandalay o Magwe, situati nella zona centrale del Paese, ossia la zona storicamente legata all’etnia birmana. Sempre all’insegna della continuità storica veicolata da alcuni simboli della tradizione forieri di consenso, veniva riprodotta in copia la pagoda Shwedagon (luogo di culto buddista caratterizzante il paesaggio urbano di Yangon) assegnandole il nome di pagoda Uppatasanti, il cui significato sta per “protezione contro le calamità”. 

In definitiva, in un efficace gioco tra scarto e continuum storico, la fondazione di Naypyidaw ribadiva l’esigenza di voler dare una nuova identità a un Paese gravato dal passato coloniale, dai conflitti etnici, da apparati democratici assenti e da una lunga fase isolazionistica (dovuta in larga parte alle sanzioni internazionali). 

A  Naypyidaw si costruiva il nuovo riconoscibile: in uno spazio che lambisce “i non luoghi” di cui parla l’antropologo Marc Augè (a Naypyidaw le pratiche sociali e  l’organizzazione della collettività sono declinate in chiave prettamente burocratica-amministrativa-militare) e in un reticolato urbano che suggerisce il senso di un ordine fisso e immutabile, venivano poste le basi per una transizione di sistema verso un ordine più liberale; Aung San Suu Kyi e buona parte della società civile hanno rappresentato e rappresentano il momento della transizione del sistema verso un assetto più democratico, ma al momento pare che, alla luce dell’ultimo colpo di Stato perpetrato dalla giunta militare lo scorso febbraio, il processo di transizione democratica verso cui in tanti hanno creduto stia conoscendo un nuovo riconoscibile impasse isolazionistico di cui, per forza di cose, Naypyidaw non può non essere il suo simbolo più loquace.  


Di Nicola Vaiarello

Immagine in copertina di DiverDave

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