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Sciascia, i siciliani, e il demone della ricerca

Sciascia la considerò una fuga per motivi etici, ma la scomparsa di Ettore Majorana, potrebbe essere la fuga da un’ossessione?


La misteriosa scomparsa del fisico catanese Ettore Majorana, che ha fatto perdere le sue tracce nell’area tirrenica, a cavallo tra Palermo e Napoli, è una delle vicende con più potenziale pirandelliano del Novecento. Rappresenta un’occasione troppo ghiotta per Sciascia, vorace cannibalizzatore del suo maestro agrigentino, per non approfondire la storia di un Mattia Pascal baciato non dalla dea bendata, bensì dalla dea con il gufo: nel caso dello scienziato però, nessun corpo è stato ritrovato.

È proprio da questa evidenza che partono le congetture che hanno affiancato la più scontata ipotesi di suicidio. Nonostante le circostanze di sparizione e le insistenti voci su avvistamenti del genio catanese, l’ipotesi del suicidio rimase a lungo la versione ufficiale, nonché la più quotata tra le autorità fasciste: oltre a essere una vicenda evidentemente pirandelliana, la negligenza e il disinteresse nei confronti del caso da parte delle autorità fasciste, rappresenta un incredibile assist per la feroce satira anti-regime di cui Sciascia è stato orgoglioso rappresentante.

Dell’affaire Majorana, più che sul suo ritrovamento, lo scrittore racalmutese si focalizza sulle ragioni della scomparsa. Qual è la ragione che spinge un individuo simile, che a detta di un Nobel per la fisica come Enrico Fermi, è «fra tutti gli studiosi italiani e stranieri […] quello che per profondità di ingegno mi ha maggiormente colpito», a voler scomparire? 

Erano anni in cui la fisica teorica era in fibrillazione, figlia della generazione d’oro di fisici austriaci, con il contributo di geni destinati a diventare delle icone pop come Einstein, il celebre Schroedinger (quello del gatto), o Heisenberg (quello del principio di indeterminazione, non quello della blue meth). E a quest’ultimo il fisico catanese si lega, umanamente e professionalmente, in seguito a un soggiorno tedesco nel 1933, durato qualche mese. 

Sciascia riconosce come Heisenberg è probabilmente il collega più umanamente affine a lui, dal momento che è uno dei fisici teorici dell’epoca che pone la ricerca scientifica anche su un piano filosofico: una sensibilità e profondità di pensiero che non poteva non condurre a individuare anche i risvolti più drammatici, nonché etici e morali, delle scoperte che si stagliavano all’orizzonte.

Quinto Congresso Solvay (1927)

È proprio su questo punto che Sciascia costruisce la sua ipotesi sulla ragione della scomparsa dello scienziato. Possibile che, data la spiccata sensibilità, il fisico avesse intravisto, per dirla come lo scrittore racalmutese, «una immagine di fuoco e di morte»?

«La sorella Maria ricorda che Ettore, in quegli anni, frequentemente diceva: “la fisica è su una strada sbagliata” o (non ricorda esattamente) “i fisici sono su una strada sbagliata” e certo non si riferiva alla ricerca in sé, ai risultati sperimentati o in via di sperimentazione di essa ricerca»: così scrive Sciascia, usando le parole della sorella di Ettore Majorana, Maria, ventilando l’ipotesi che il fisico, resosi conto della minaccia rappresentata dall’imminente costruzione di ordigni atomici, abbia deciso di defilarsi, ribellandosi a quelli che erano i dettami di un mondo che si apprestava a entrare in un conflitto che avrebbe sconvolto l’umanità e portato alla morte di milioni di persone.

Questa però, potrebbe essere semplicemente una proiezione dello scrittore siciliano: il saggio sulla vicenda di Majorana è un gioco di specchi, dove lo scrittore si specchia in Majorana, e lo scienziato mostra caratteristiche che, dalle tinte pirandelliane del Mattia Pascal, tendono a variare verso tonalità che ricordano più il Paolo Laurana di A ciascuno il suo

L’illuminismo sciasciano, con il topos dell’uomo di tenace concetto, lo conducono naturalmente a dedurre che il fisico si fosse ribellato alla natura prevaricatrice umana, che in preda a un delirio di onnipotenza, stava per ottenere le chiavi per la sua stessa autodistruzione. Un Fra Diego La Matina de Morte dell’inquisitore in chiave scientifica, che ribellatosi all’autorità costituita, decide di liberarsi, fuggendo pur di non abiurare la sua natura umana.

E se le parole di Maria Majorana, su “la strada sbagliata” intrapresa dalla fisica, si riferissero a quella che successivamente sarebbe diventata la teoria quantistica, che più che mettere d’accordo la comunità scientifica dell’epoca, fu motivo di ritrattazioni (Schroedinger e l’esperimento mentale del gatto, entrato nell’immaginario pop, ma nato con intento critico nei confronti della natura paradossale della meccanica quantistica) e confronti accesi (celebre quello tra Bohr e Einstein, in cui, dati i risultati puramente probabilistici ottenuti dalla meccanica quantistica, Einstein dichiarò che «Dio non gioca a dadi»)? 

Del resto, lo stesso Sciascia individua nella scienza e nella ricerca scientifica, la natura intrinseca di Majorana, per cui utilizza una curiosa metafora, per distinguere i “ragazzi di via Panisperna”, il gruppo di ricerca romano capeggiato da Fermi – di cui Majorana faceva parte – da Majorana stesso: «Quelli l’amavano, volevano raggiungerla e possederla [la scienza]; Majorana, forse senza amarla, “la portava”». Invece è molto probabile che Majorana la scienza l’amasse, a tal punto da esserne ossessionato. 

Come si potrebbe definire, se non “ossessione”, quella che ha contraddistinto i più grandi uomini della storia, che sono stati in diversi campi, incisivi per il destino di tutto il genere. Non a caso Fermi definisce Majorana “genio come Galileo e Newton”: loro sono forse stati tra i più illustri esempi di possessori del fuoco della curiosità e dell’investigazione scientifica. Geni in quanto dotati di intuizione e capacità deduttive fuori dal comune, ma più di tutto, mossi da una disarmante, quanto invalidante -in termini sociali almeno- curiosità.

Far perdere le sue tracce per sfuggire forse da quella che era diventata un’ossessione autodistruttiva per la scienza? Quel che è certo, è che mai l’uomo, nel corso della storia, ha rinunciato alla sua sete di conoscenza, tanto meno ciò avvenne nel caso delle scoperte sull’energia atomica. 

Eppure un altro genio del calibro di Galileo e Newton, per dirla come Fermi, fu parte attiva di quelle scoperte: Einstein. Risulta difficile credere che quella generazione di scienziati venne costretta a fabbricare un’arma, contro la propria volontà, senza essersi accorta dei chiari risvolti etici che avrebbe avuto una simile scoperta. Probabilmente non se ne curarono. Qualcuno se ne pentì, è vero, ma soltanto dopo averne visto l’impiego. Magari confidavano in un effetto deterrente rappresentato dall’esistenza stessa di un ordigno atomico, senza dover incorrere in un effettivo impiego.

Lo scienziato, dopo il soggiorno tedesco, rientra in Italia e prima di scomparire, si chiude in un isolamento forzato: a sporadiche apparizioni all’istituto di fisica a Roma alterna uno studio furioso. Non si sa esattamente quali siano gli argomenti dei suoi studi. Quel che è certo è che alla fine di questo periodo accetta una cattedra di fisica teorica a Napoli, conferitagli per merito. È in questo quadro che, tra il 25 e il 26 marzo del 1938, fa perdere le sue tracce. 

La sua scomparsa verrà accompagnata da delle lettere dai toni allusivi, come quella indirizzata ai familiari, a cui chiede espressamente di non vestire il nero per più di tre giorni. O al collega e direttore dell’istituto di Fisica, Carrelli, a cui, parlando del collega Sciuti, dice che ne conserverà «un caro ricordo almeno fino alle undici di questa sera, e possibilmente anche dopo». 

Seguiranno moltissimi avvistamenti nel corso degli anni, in Sud America, in Italia e anche in Sicilia, con diverse piste e congetture sulla sua sparizione e su una sua eventuale nuova vita. Quel che è certo è che se ha voluto far perdere le sue tracce, ci è riuscito.

Appare eccezionale come un personaggio di simile caratura scientifica sia nato in Sicilia, terra che non è storicamente ricordata come patria di scienziati. Sciascia attribuisce questa scarsezza di siciliani di scienza illustri all’Inquisizione spagnola, che aveva nei secoli precedenti annichilito lo spirito critico e soffocato il libero pensiero.

Ettore Majorana sarà pur stato uno tra gli scienziati siciliani più illustri di tutti i tempi, ma la fiamma della curiosità, l’ossessione nei confronti della scoperta, non è una sua esclusiva caratteristica. Anche Sciascia era posseduto da un demone, quello della ricerca della verità. Entrambi oasi nel deserto, nati in un ambiente poco incline ad assecondare spinte culturali costruttive: personaggi paradossali nati in una terra di paradossi, o per dirla come lo scrittore siciliano, uomini di grande ragione, paradossalmente legati a doppio filo a una realtà così ostinatamente lontana da ogni tipo di ragione.


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