La doppia sfida di essere una donna artista in Afghanistan

Prima dell’arrivo dei talebani, essere un’artista donna in Afghanistan significava andare contro corrente in un paese dominato da uomini. Oggi essere un’artista donna in terra afghana è divenuto letale.


Prima dell’ascesa al potere dei talebani essere un’artista donna in Afghanistan significava andare contro corrente per rivendicare l’identità femminile, i diritti delle donne e le proprie libertà in un paese dominato da uomini. Oggi essere un’artista donna in Afghanistan è divenuto letale. .Essere donna in Afghanistan è difficile, essere un’artista lo è ancor di più.

La cronaca in questi mesi ha trafitto i nostri cuori ed è per questo che oggi vogliamo rendere omaggio alle artiste della resistenza: alle donne, artiste coraggiose e a tutte coloro che lottato per raccontare con audacia l’Afghanistan attraverso le immagini, attraverso l’arte, attraverso la bellezza; perché l’Afghanistan non è solo guerra ma è anche speranza.

Fotografe, artiste, street artist, giornaliste costrette a scappare, colpevoli solo di essere artiste e di essere donne. Se nel nostro Paese è riconosciuto il diritto alla libertà di opinione, di parola e di espressione a ogni donna, allora oggi, più che mai, diviene dovere di ognuna di noi sostenere le donne afghane dando voce alle loro immagini tra le pagine dei giornali, urlando per tutte coloro alle quali è stato ordinato il silenzio.

La resilienza in uno scatto 

Fatimah Hossaini, meglio conosciuta come la fotografa della bellezza, è una coraggiosa sostenitrice dei diritti delle donne e dei rifugiati e la sua lotta avviene con in mano una macchina fotografica, attraverso cui crea ricordi di donne piene di speranza anziché mere vittime tra le macerie. Con la fotografia ha voluto mostrare al mondo identità che rischiano di essere messe sotto terra dalla guerra o peggio ancora dimenticate.

Fatimah Hossaini è andata alla ricerca della bellezza più nascosta: non la bellezza occidentale che tutti noi conosciamo, ma quella più profonda che si trasmette attraverso lo sguardo di una donna annientata dal dolore che trova dentro il suo cuore la forza di sopravvivere.

Sentiva la «responsabilità di mostrare un’altra immagine dell’Afghanistan, una di cui essere orgogliosi, quella della bellezza, pur nel mezzo della guerra». Nelle sue immagini si scorgono visi meravigliosi adornati con abiti colorati. Le pose sono davvero in controtendenza e mostrano delle donne forti.

Per raccontare tutto ciò Fatimah Hossaini ha rischiato la vita, poiché in alcune regioni la fotografia è vietata. Scattare foto alle donne in una società conservatrice come l’Afghanistan non è per nulla semplice perché mettersi in posa per degli scatti è un andare oltre i confini del lecito. Tuttavia c’è chi vuole varcare i limiti tracciati da una società dominata dagli uomini. La fotografa della bellezza dichiara: «un’immagine è un messaggio silenzioso ma potente al mondo, e il mondo in questo modo può vedere la resilienza di milioni di donne afghane». 

«Ho sempre cercato di creare bellezza e catturare la bellezza nel mezzo di una zona di conflitto. Le mie foto mostrano il mio viaggio artistico e spesso impegnativo, esplorando le prospettive di genere e le condizioni sociologiche della società afghana. Le donne sono sempre state al centro del mio lavoro. Ho cercato di catturare e ridefinire le donne afghane mostrando la loro bellezza, la loro femminilità e le loro speranze. Cerco di dimostrare che la vera pace deriva dall’ abbracciare questa diversità e dal rispetto delle loro differenze. Il mondo è più bello quando si apprezzano le differenze, si infrangono i limiti imposti e le donne non sono viste come deboli. Quando bellezza e pace si uniscono, la pace è sempre bella».

Street art: l’arma della resistenza 

Tra le forme d’arte più diffuse in Afghanistan c’è la street art. Tra le artiste più conosciute troviamo Shamsia Hassani, la prima street artist dell’Afghanistan, che con la sua forma d’arte si oppone all’oppressione delle donne afghane e attacca frontalmente i talebani. Negli ultimi post su Instagram si legge: «Forse è perché i nostri desideri sono cresciuti in un vaso nero…», frase che accompagna il suo ultimo graffito, dove un’ombra di un talebano sovrasta una giovane ragazza con un vaso in mano.

Lei non si è mai sentita al sicuro mentre dipingeva; per questo molte sue opere sono rimaste incompiute. La loro bellezza risiede proprio in quei tratti frettolosi e spaventati che racchiudono tutto il coraggio dell’artista.

Shamsia non è l’unica. Anche Malina Suliman, appena 25enne, ha scelto la strada della bomboletta contro l’oppressione politica del regime. La sua lotta è contro il burqa: nella sua mostra In Beyond the Veil – A Decontextualisation, attraverso varie installazioni-video, l’artista racconta la vita dietro al velo. La sua mostra è autobiografica: a 12 anni fu costretta dalla famiglia a indossare l’indumento costrittivo e da adulta i suoi fratelli le vietarono di frequentare corsi fuori casa, perché altrimenti la loro famiglia avrebbe perso il rispetto della società. 

Malina sa che con i talebani non si può osare, non si scherza e le minacce di morte l’hanno costretta a scappare in Olanda, dove espone i suoi lavori. «Mi sentivo come se non esistessi – ha raccontato in un’intervista al New York Times – come se fossi la loro bambola. Mi sentivo persa». Ha iniziato con i suoi graffiti, non per creare opere d’arte ma per diffondere un messaggio. Pochi minuti a disposizione per racchiudere in un’immagine tutto ciò che voleva denunciare e poi scappare, perché il rischio di essere punita era troppo alto.

Cristina Donati Meyer: l’autrice della donna con velo crocifissa 

«Le donne afghane ringraziano». Una croce, una donna trafitta e un burqa: questa è l’immagine dell’opera realizzata da Cristina Donati Meyer apparsa in Piazza Castello a Milano. Essa simboleggia la sorte alla quale l’Occidente ha abbandonato le donne e le bambine afghane. Una provocazione che denuncia la precipitosa fuga degli occidentali da Kabul che ha lasciato nelle mani dei tagliagole talebani un intero Paese e, soprattutto donne e bambine, odiate visceralmente dai patriarchi maschilisti e semi analfabeti, fondamentalisti del nulla.

L’installazione, come dice l’artista, è un grido contro «la scomposta fuga degli occidentali da Kabul» che «sta lasciando nel Paese asiatico alcune decine di migliaia di persone a rischio tortura, lapidazione e assassinio per mano dei tagliagole talebani. Sono le ragazze che avevano avuto l’illusione, in questi vent’anni di occupazione militare, di poter lavorare, studiare o non nascondersi in un sacco nero di tessuto. Sono le persone che hanno collaborato e lavorato con gli occidentali e con le autorità fantoccio afgane. Sono le bambine, anche di 8 anni e le ragazze che non avevano alcuna intenzione di prendere in sposo con la forza un vecchio mullah talebano».

«Stati Uniti e Europa avrebbero potuto pianificare un ritiro graduale e ordinato, portando prima in salvo le persone esposte a sicura vendetta talebana. Si è scelto di scappare, lasciando agli estremisti armi ed equipaggiamenti, oltre ad un mare di vittime, soprattutto donne e bambine, da falciare liberamente». L’opera – che non è stata autorizzata e che sarà difficile da spostare a causa del suo peso – si erge come simbolo solidale verso tutte le donne lasciate impotenti davanti a un atroce e crudele destino di morte.


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