Gli splendidi matti di Pippo Fava

Il 5 gennaio del 1984, Giuseppe Fava, da tutti conosciuto come Pippo, lascia alle 21.30 circa la redazione del proprio giornale per andare a prendere la nipote che recitava in uno spettacolo al Teatro Verga, a Catania. Non ha neanche il tempo di scendere dalla macchina. Viene freddato con 5 colpi di pistola alla nuca. Oltre trentacinque anni dopo siamo qui, ancora a parlare di lui, a ricordarlo. Perché un italiano, un siciliano più di tutti, non può e non deve dimenticare Pippo Fava.

Pippo non era solo un giornalista. E non ci riferiamo al fatto che fosse anche uno sceneggiatore, uno speaker radiofonico, uno scrittore: ci riferiamo al fatto che Pippo fosse un idealista.

Un idealista di quelli veri, onesti, sinceri; di quelli che fanno ancora pensare che la nobiltà d’animo, di pensiero e di azioni esiste. Che esiste il coraggio, quel coraggio forse un po’ incosciente che solo un ideale solido e puro riesce a tirare fuori, perché radicato nella mente e nel cuore; un ideale che grida forte ed è impossibile da zittire, che Pippo non ha mai ignorato, esprimendolo con l’unica arma che conosceva e sapeva usare egregiamente: la parola.

Tutti conosciamo la biografia di Pippo, e se così non fosse, basta avere uno smartphone in mano, digitare il suo nome e leggere in rete le innumerevoli notizie che lo riguardano. Si legge che è nato a Palazzolo Acreide, in provincia di Siracusa, che si trasferisce a Catania a 18 anni e qui si laurea in Giurisprudenza; ma soprattutto che scrive, scrive di qualunque cosa, di cinema, di calcio, ma i suoi pezzi più significativi sono delle interviste ad alcuni boss di Cosa Nostra, tra cui Calogero Vizzini e Giuseppe Genco Russo.

Pippo Fava si fa notare per la sua scrittura dallo stile semplice, diretto, essenziale: fa ogni sua affermazione senza giri di parole, non usa mezzi termini, va sempre dritto al sodo, con frasi scomode che lo rendono una persona poco “manovrabile” e poco “gestibile”. Nel 1980 gli viene affidata la direzione del Giornale del Sud, che lui cerca subito di innovare creando un gruppo redazionale di giovani cronisti, spesso con poca esperienza o improvvisati, ma tutti legati da un filo comune: la voglia di scrivere, e di farlo bene, lavorando attraverso inchieste puntualmente documentate; la voglia di scrivere la verità.

La verità. Ecco, questo era l’ideale di Pippo, quell’ideale che lo ha accompagnato per tutta la vita, e lo ha portato alla morte. Il giornalismo per lui era questo, e non ne ha mai fatto mistero: per lui non c’era, non poteva esserci, altro modo di scrivere che si discostasse dal raccontare la verità.

«Io ho un concetto etico del giornalismo. Ritengo infatti che in una società democratica e libera quale dovrebbe essere quella italiana, il giornalismo rappresenti la forza essenziale della società. Un giornalismo fatto di verità impedisce molte corruzioni, frena la violenza, la criminalità, accelera le opere pubbliche indispensabili […], sollecita la costante attenzione della giustizia, impone ai politici il buon governo».

Con queste parole apparse sul Giornale del Sud l’11 ottobre del 1981 (e che gli costeranno il licenziamento di lì a poco), Pippo Fava chiariva lo spirito che a suo dire avrebbe dovuto avere ogni giornale, la sua visione stessa del lavoro, visto come una missione vera e propria, a cui dedicare l’intera vita.

Una personalità così forte non può mettersi a tacere facilmente. Il licenziamento è per lui fonte di nuova ispirazione: con i pochi collaboratori che decidono di non abbandonarlo, fonda la cooperativa Radar per dar vita a un nuovo progetto editoriale. A suon di cambiali compra due rotative Roland di seconda mano e due offset bicolori settanta/cento. «Fava se le cova con lo sguardo che se invece di essere offset, fossero due turiste svedesi, lo denuncerebbero per stupro», scriveranno ironicamente di lui i suoi collaboratori dopo l’assassinio, raccontando con commozione del loro folle progetto.

«Dieci matti tra i venticinque e i trentacinque anni, più un matto di sessanta»; sarà questo gruppo di meravigliosi disperati che fonderà I Siciliani, primo numero in uscita a novembre del 1982: alle 9 del mattino in edicola, a mezzogiorno sono già finite tutte le copie.

I Siciliani si presenta sin da subito come un giornale scomodo, temerario, capace di infastidire i potenti: il primo articolo firmato proprio da Fava sarà un articolo-denuncia che racconta le attività illecite di quattro imprenditori catanesi, Carmelo Costanzo, Gaetano Geraci, Mario Rendo e Francesco Finocchiaro, oltre ad altri personaggi, tra cui Michele Sindona.

Vani i tentativi da parte di alcuni di loro di acquisire il controllo del giornale: Pippo non si piega, proprio adesso che finalmente ha il suo giornale, con le sue regole, i suoi principi, la sua verità. I Siciliani resta una testata indipendente, il lavoro continua, la polvere non si nasconde più sotto il tappeto, ma viene fuori e inizia a ricoprire tutto con strati e strati. Anche se il sindaco di allora, Angelo Munzone, si ostina a dire che la mafia a Catania non esiste; anche se bisogna evitare di scrivere certe cose perché «altrimenti i cavalieri potrebbero decidere di trasferire le loro fabbriche al nord».

Il 28 dicembre del 1983 Pippo Fava rilascia un’intervista (che oggi sembra quasi un testamento) a Enzo Biagi nella trasmissione “Film Story” in onda sulla Televisione della Svizzera Italiana, otto giorni dopo verrà ucciso.

Ancora una volta, per l’ultima volta, Fava usa parole dure, nomi e cognomi, senza filtri, come era suo stile: «I mafiosi a volte sono ministri, i mafiosi sono banchieri, i mafiosi sono quelli che in questo momento sono ai vertici della nazione. Non si può definire mafioso il piccolo delinquente che arriva e ti impone la taglia sulla tua piccola attività commerciale, questo è roba da piccola criminalità […]. Il fenomeno della mafia è molto più tragico e importante». Parole pronunciate 36 anni fa, che fanno rabbrividire per la loro terribile attualità.

Pippo verrà messo a tacere qualche giorno dopo, a testimonianza che il potere delle parole può essere tagliente tanto quanto una lama, forse di più. Lui è stato messo a tacere, ma le sue affermazioni, il suo modo di fare giornalismo, continuano a vivere, nonostante vari tentativi di insabbiare ogni cosa.

«Adesso dobbiamo ricominciare a lavorare. Mica possiamo tirarci indietro con la scusa che è morto uno di noi. Se qualcuno vuole dare una mano, va bene, altrimenti facciamo da soli, tanto per cambiare. Va bene così, direttore?»; con queste toccanti parole i ragazzi di Fava, quei dieci matti tra i 25 e i 35 anni, salutano il loro direttore all’indomani dell’omicidio, e fanno tesoro del suo esempio: continuare a lavorare, con passione, con coraggio, senza fermarsi di fronte a nulla.

E finché ci sarà anche una persona, una soltanto, che trarrà ispirazione dalla sua fermezza, dalla sua determinazione, dalla sua tenacia, allora l’insegnamento di Pippo sarà andato a buon fine. Finché ci sarà anche una sola persona che invece di pensare: «Chi glielo ha fatto fare», penserà: «Voglio essere come lui», allora la morte di Pippo non sarà stata inutile.

Finché ci saranno ancora degli splendidi matti che credono in tutto questo, che le cose possano cambiare, o quantomeno che credono sia giusto almeno provarci, allora ne sarà valsa la pena, e ne varrà ancora la pena, sempre.


2 commenti

I commenti sono chiusi

... ...