Svelando la cultura sessista dell’advertising italiano: l’intervista a Massimo Guastini

Il MeToo nel mondo della pubblicità italiana svela un intricato tessuto di testimonianze di abusi sessuali. Intervistiamo Massimo Guastini, colui che ha scoperchiato il vaso di Pandora.


In questo articolo abbiamo raccontato lo scandalo nel mondo della pubblicità italiana che conta numerose testimonianze di molestie sessuali e maschilismo. Pasquale Diaferia, autore pubblicitario, è stato accusato da diverse stagiste, a cui si aggiunge la testimonianza dell’ex moglie.  La vergognosa “Chat degli 80” rivela una cultura sessista e oggettificante delle donne all’interno delle agenzie pubblicitarie. Nonostante le segnalazioni, le vittime subiscono danni senza che venga intrapresa un’adeguata azione. La lotta per il riconoscimento e il trattamento dignitoso delle donne continua, mentre vivono con paura di bruciarsi la carriera e rischio di oggettificazione e proposte indecenti.

Questa storia è lunga e contorta, come la riassumeresti? Io non so se Pasquale Diaferia sia attualmente un molestatore sessuale. So per certo che lo è stato tra il 2007 e il 2016. Perché me l’hanno raccontato una dozzina di ragazze. L’ultima proprio in questi giorni anche se i fatti che mi ha descritto avvennero nel 2012.

Dall’intervista di Monica Rossi 9.6.2023: (…) il 27 settembre pubblicai un post e il giorno dopo mi arrivarono tre testimonianze da delle ragazze che l’avevano riconosciuto dal modus operandi. E mi contattò anche un uomo, amministratore delegato di un’agenzia, la cui moglie gli aveva raccontato di aver subito un’esperienza analoga sempre con lo stesso soggetto: Pasquale Diaferia.(…) Una sera, che per me fu drammatica, mi contattò una giovane donna, sui 30 anni. La sua è sicuramente la storia peggiore tra quelle di cui ho avuto una testimonianza diretta. La incontrai il 30 settembre 2016, in un bistrot. Si era portata dietro anche un block-notes dove aveva annotato tutto. Piangeva e parlava, parlava e piangeva. La sua storia oltre a essere la peggiore era molto recente, e ben lungi dalla prescrizione. Mi raccontò di aver preso un caffè shakerato con Pasquale Diaferia e poi di essersi ritrovata a letto con lui che dormiva, stordita e confusa. Soprattutto non poteva capacitarsi di avere trascorso la notte con un uomo che aveva sempre percepito come viscido e sgradevole. Ricordava benissimo il caffè shakerato ma nebbia totale sul come da quello si fosse arrivati al letto. “È folle pensare che mi abbia narcotizzata e violentata?” mi chiese la donna. Ebbene, tutte queste ragazze sono delle povere pazze? Perchè la storia non è mica finita. In seguito mi contattò una donna, una certa Annita Lucrezia Barberi, che aveva delle informazioni su quella e altre vicende. E questa donna è l’ex moglie (di Diaferia, ndr). A un certo punto della nostra conversazione, dopo che mi raccontò delle cose agghiaccianti, pensò bene di salutarmi con queste parole: “Sono stata la moglie di Pasquale per 34 anni fino ad agosto dello scorso anno. Con lui ho avuto quattro figli e un nipote. Ti dico solo questo: tre su quattro dei suoi figli mi hanno chiesto di non informarli quando lui morirà (…)

Come mai ci è voluto tanto tempo perché venisse fuori? Perché inizialmente l’ho “toccata piano” come dicono i giovani. Non potevo fare il nome delle donne che negli anni mi hanno raccontato le molestie sessuali subite, compreso un caso che a mio avviso pare uno stupro. Le vittime mi avevano chiesto di non fare pubblicamente il loro nome. Solo una provò a denunciarlo, ma i carabinieri la fecero desistere: sarebbe stata la sua parola contro quella di Diaferia.

Allora provai la via della discrezione, parlandone ai vertici dell’Art Directors Club Italiano oggi presieduto da Stefania Siani (ndr. che giorno 22 Giugno pubblica un comunicato in cui prende le distanze da ogni forma di sessismo). Ma non portò a nulla. Anzi, continuarono a invitare Diaferia a visionare i portfoli di giovani creativ*. Il potere protegge solo se stesso. Le associazioni ma anche le agenzie e le scuole di comunicazione temono che denunciare una mela marcia danneggi la reputazione di un comparto. Io invece ritengo che ogni mela marcia nascosta sotto il tappeto finisca per danneggiare la reputazione di tutti.

L’espulsione di Diaferia dall’ADCI è positiva, ma non risolve del tutto il problema. Altri influenti individui nel settore potrebbero essere coinvolti. È necessaria un’indagine approfondita. Perché è stato un uomo a far emergere la situazione? C’è voluta una persona disposta a fare nome e cognome di chi sapeva essere un molestatore seriale al di là di ogni ragionevole dubbio. Prendendosi i rischi annessi. Poteva farlo anche una donna, purché non fosse a sua volta vittima di molestie sessuali. Questo genere di violenze lasciano delle ferite, anche a distanza di anni. Per questo ritengo che un anno di prescrizione per il reato sia un tempo troppo breve. E quando queste cose che racconto accaddero era addirittura di soli sei mesi. Giulia (ndr. Giulia Segalla) è stata la prima a trovare il coraggio di dire “l’ha fatto anche a me”. E ci ha messo 12 anni.

Secondo te, perché gli uomini che facevano parte di quella chat non si sono opposti? Questa è LA domanda. Grazie per avermela posta. Non posso essere sintetico in questo caso. Certo. È un ambiente tossico per lo meno da 15 anni. Per essere precisi la mia risposta è: per gli uomini le agenzie sono “solo” tossiche. Per le donne le agenzie sono oltre che tossiche, molto spesso anche umilianti, degradanti e discriminanti. Un luogo pericoloso. Le molestie sessuali hanno svelato un aspetto meno noto nel mondo “dorato” delle grandi agenzie pubblicitarie milanesi. Ma la situazione é drammatica. Del resto, se avete letto la cronaca di questi giorni e della famigerata “chat degli ottanta” vi sarete fatti la mia stessa domanda: quale ambito lavorativo può dare luogo a tali comportamenti psico-patologici, compiuti da giovani uomini di cultura universitaria?

Stiamo parlando di decine di uomini che durante l’orario di lavoro condividevano questo genere di “apprezzamenti” verso le loro colleghe. Per non parlare della fantasia criminale di un rapporto a caldo, subito dopo un raschiamento.

Possiamo parlare di orrore in un ambiente privilegiato? Non è un ambito così privilegiato. E da oggi dobbiamo parlarne, o peggiorerà ancora di più. Comincio io. Ma se poi non arriverete anche voi, e molto presto, io mi fermerò.

Che cosa accade nelle agenzie di comunicazione, soprattutto a Milano? Il peggio. Soprusi, maltrattamenti quotidiani, vessazioni, sfruttamento, abusi reiterati e di vario tipo. In estrema sintesi? Diritti umani calpestati. Questo video postato pochi giorni fa è emblematico e rappresenta un ambito professionale. Il video ha suscitato reazioni intense tra uomini e donne, mettendo in luce una cultura professionale problematica. Alcuni hanno affrontato la dissonanza cognitiva, altri hanno proiettato l’aggressività su di me. È difficile riconoscere i “memi culturali” patologici quando si è immersi in una cultura. Se il video avesse mostrato battute razziste degli anziani, sarebbe stato più facile distanziarsi senza generare dissonanza cognitiva.

Hai presentato due volte alla Camera, su invito di Laura Boldrini (al tempo portavoce dell’UNHCR), questa ricerca che mostra l’impatto sociale dei contenuti prodotti dalle agenzie di comunicazione. Racconti di come, però, all’epoca sia stata insabbiata dalla direttrice generale di UPA. Da questa ricerca è stato tratto un Saggio pubblicato da Versus (fondata da Umberto Eco), una delle più rinomate riviste internazionali di semiotica, filosofia e teoria dei linguaggi, da oltre 40 anni rappresenta un punto di riferimento per la ricerca semiotica.

Riprendendo la tesi contenuta dalla ricerca, ci si chiede se e come questo tipo di situazioni sessiste e misogine influenzino il tipo di contenuti e messaggi destinati al pubblico. Segnalai questo aspetto un mio intervento pubblico e istituzionale, tenutosi il 10 dicembre 2012, presso il Ministero dello Sviluppo Economico. Ecco parte di quello che dissi a quel convegno: “Nel nostro Paese la TV determina l’opinione (e quindi i comportamenti) di almeno l’80% degli italiani. Chiunque si trovi a creare dei contenuti per un mezzo tanto influente non dovrebbe mai scordarsi delle responsabilità connesse. Quasi il 60% degli investimenti pubblicitari sono pianificati ancora su questo medium. Il fatto che per legge la pubblicità non possa superare un certo tetto percentuale del palinsesto televisivo, non mi fa sentire meno responsabile, in quanto pubblicitario, della discriminazione di genere che rende l’Italia un paese inaccettabilmente arretrato.”

Come ho anche scritto nel manifesto deontologico dell’Art Directors Club Italiano, “noi soci ADCI siamo (ndr. eravamo?) consapevoli del fatto che la comunicazione commerciale contribuisce alla costruzione dell’immaginario collettivo”.Non ho mai accettato l’affermazione “la pubblicità è lo specchio della società” e non accetto l’alibi: “la pubblicità non ha il compito di educare”. Di sicuro non dobbiamo diseducare. Di sicuro non dobbiamo produrre forme di inquinamento cognitivo. La buona (e vera) pubblicità non offende, non inganna, non prevarica. Non impone.

Quanti operatori oggi, nelle aziende e nelle agenzie di pubblicità, sono consapevoli di questo? Quanti ci credono? Pochissimi, a giudicare da quello che vediamo, offline e online. Eppure, ogni anno, Cannes Lions e i più importanti festival oltre confine premiano moltissime idee sulle quali grandi aziende internazionali hanno puntato decine di milioni di euro. Soldi veri per progetti veramente rilevanti. Tutte idee molto diverse una dall’altra ma con alcuni tratti comuni: non offendono, non prevaricano, non ingannano, non impongono, non diseducano. Sono dunque anche etiche, oltre che estetiche.

In Italia, le aziende spesso investono in campagne poco originali e poco innovative, spesso addirittura imbecilli e non professionali, ma ciò non significa che la comunicazione di massa debba essere arretrata. (online uno slide show con le migliori campagne italiane del 1992).

Vent’anni fa, aziende italiane leader attribuivano grande importanza ai contenuti. Tuttavia, in Italia, i committenti pubblicitari non sembrano comprendere l’importanza delle strategie pubblicitarie efficaci come in altre grandi aziende internazionali. Le agenzie italiane sono guidate da burocrati e ragionieri, non da creativi. Mancano dialogo onesto e relazione tra creatori di contenuti e imprenditori. Oggi, gli spot televisivi non superano (quasi mai) la qualità dei programmi che interrompono, a differenza di quanto affermato da  Aldo Grasso nel 1997. Non è dovuto a un miglioramento significativo della qualità dei programmi televisivi. 

Così, malgrado le evidenze già ricordate ci abbiano dimostrato quanto sia importante il contenuto, nonché la capacità di raccontare una storia, i creatori non sono mai stati pagati così poco come oggi. In Italia, l’80% dei creativi tra i 22 e i 35 anni guadagna tra gli 80 centesimi e i 5,41 euro netti all’ora. Non è gavetta. Il 90% dei creativi è fuori dalle grandi agenzie prima dei quarant’anni (oggi direi 35) Il denaro che il business pubblicitario è ancora in grado di generare, alimenta “circuiti relazionali” anziché i produttori di idee. Proseguendo su questa china, il nostro settore non sarà più in grado di intercettare, come in passato, i migliori giovani e i migliori talenti.

In Italia il mondo della comunicazione è prettamente maschile? In realtà circa il 70 per cento delle persone che lavorano nelle agenzie di comunicazione sono donne, ma ai vertici ci sono pressoché solo uomini.

Piaccia o no, l’immaginario collettivo si nutre più di comunicazione pubblicitaria che di arte. Se n’era accorto già Bill Bernbach, alcuni decenni fa: tutti noi che per mestiere usiamo i mass media contribuiamo a forgiare la società. Possiamo renderla più volgare, più triviale. O aiutarla a salire di un gradino. La progressiva scomparsa dell’etica nelle dinamiche professionali del settore pubblicitario, nelle remunerazioni, nei rapporti con i dipendenti, ha da troppo tempo inevitabili ripercussioni sulla qualità dei contenuti che mettiamo on air e online. Ecco allora che un “sistema pubblicità” privo di etica diventa un problema di rilevanza sociale. Ecco che un lavoro delicato, per le responsabilità morali e sociali che implica, rischia di non essere più né un mestiere né un insieme di tecniche e competenze. Ma solo l’improvvisazione di chi vive improvvisandosi, un’innegabile forma d’inquinamento cognitivo. Il pessimo nutrimento dell’immaginario collettivo. Grazie Massimo per aver dedicato del tempo per parlare con noi e con il nostro pubblico.


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