Il caso “We Are Social”, molestie nel mondo della pubblicità

Il mondo della pubblicità è stato coinvolto in un clamoroso Me Too, con il recente caso dell’agenzia “We Are Social”, tra molestie e chat sessiste.


È bastata una sola intervista per innescare una reazione a catena e far uscire allo scoperto tantissime storie di molestie sessuali e maschilismo sul posto di lavoro, questa volta nel mondo della pubblicità. Il caso è scoppiato due settimane fa a seguito di un’intervista rilasciata da Massimo Guastini, ex presidente dell’ADCI (Art Directors Club Italiano) a Monica Rossi, utente anonimo di Facebook del mondo dell’editoria.

Alla domanda della giornalista, che si chiedeva se nel mondo della pubblicità ci fosse un problema di molestie sessuali, Guastini ha risposto di sì, facendo subito il nome di Pasquale Diaferia, noto autore di molte famose pubblicità. Lo ha definito come un molestatore seriale, almeno tra il 2007 e il 2016, per le tantissime testimonianze di ragazze, soprattutto di stagiste, che sono giunte fino a lui, lavorando nella sua agenzia pubblicitaria. 

Una di loro si è fatta avanti, proprio in queste settimane, dopo che il racconto della sua molestia era stato riportato dallo stesso Guastini. «Si offrì di accompagnarmi a casa: 50 anni, poteva essere mio padre. Mi sono fidata. Dopo i miei no mi tenne chiusa in macchina per ore. Poi non ha smesso di cercarmi» denuncia Giulia a La Repubblica con riferimento a fatti accaduti nel 2012. 

Una storia, quella di Giulia, che è solo una delle tante che hanno segnato la vita di giovani ragazze, intimorite anche a denunciare per paura di perdere il posto di lavoro. Ragazze che si sono pure sentite dire che «se si fossero mostrate più disponibili avrebbero fatto una certa carriera».

Sebbene non fosse stato menzionato nessun nome di agenzia, le accuse mosse dall’ex presidente dell’Art Directors Club Italiano (ADCI) hanno fatto intuire in poco tempo che si trattasse di We are social, grande compagnia di pubblicità internazionale con sede a Milano. 

Ciò che è emerso dalle ultime denunce e dichiarazioni è stato il caso di questa grande chat, chiamata “Chat degli 80” per il numero di membri al suo interno, in cui i dipendenti dell’agenzia commentavano le dipendenti con osservazioni sessiste, oggettificandole e scambiandosi le loro foto. 

La chat era già stata scoperta qualche anno fa da una ex dipendente, che ha rilasciato un’intervista a Il Fatto Quotidiano, spiegando come una sera a cena con un collega fosse venuta a conoscenza di un simile gruppo.

«C’era una sentinella per piano che avvisava quando le ragazze facevano le scale da un piano all’altro […]» dando così l’occasione ai colleghi presenti nella chat di commentare il “passaggio” delle colleghe in modo violento e sessista. «Messaggi simili venivano scambiati anche durante le riunioni in ufficio e pure subito dopo i colloqui di lavoro, quando venivano fatti circolare gli account social delle candidate».

«Le testimonianze riportano commenti ben peggiori e agghiaccianti e si parla anche della presenza di un presunto foglio excel in cui tutte le colleghe venivano classificate in base alla “scopabilità” e alle posizioni migliori per portarsele a letto».

Quando alcune donne decisero di farsi avanti per riportare ai superiori la situazione, la chat dopo qualche giorno fu effettivamente chiusa, ma nessuno fu licenziato né ebbe ripercussioni sulla sua carriera; anzi, alcune ragazze si sentirono costrette a licenziarsi per il danno psicologico subito.

Semplicemente, non se ne parlò più per qualche tempo, fino a quando nel 2020 il podcast Freegida non affrontò l’argomento, senza però mai citare il nome della compagnia. 

Solo in questi giorni altri dipendenti ed ex dipendenti stanno commentando l’accaduto e raccontando il clima tossico dell’agenzia. «Durante le riunioni, le colleghe non sapevano che prima o addirittura durante noi intanto chattavamo in tempo reale commentando la loro voce odiosa, il loro culo grosso, le loro tettine acerbe o cose così» aggiunge Mario Leopoldo Scrima, l’unico membro della famosa chat ad averne discusso apertamente negli ultimi giorni. 

Inoltre, Gabriele Cucinella, uno dei tre fondatori di We are social, ha dichiarato che essi non facevano parte di quella chat e che vennero a sapere della loro esistenza solo quando si era affrontato il problema durante una riunione ad hoc

Nonostante ciò, non era stato preso nessun provvedimento perché, a quanto pare, il contenuto della chat non era comunque rintracciabile. Senza accedere alla chat e ai nomi dei membri, spiega Cucinella, sarebbe stato impossibile procedere per vie legali, ragion per cui ai tempi decisero di affrontare il problema attraverso una campagna di sensibilizzazione sul tema. Adesso la società condanna l’accaduto e afferma che enti terzi si stanno occupando di rifare le indagini. 

Ma non si tratta, purtroppo, di un caso isolato. Dopo quest’ultima vicenda, Tania Loschi, una copywriter freelance, ha raccolto varie testimonianze e confessioni di altre donne nel mondo della comunicazione e della pubblicità, denunciando molestie sessuali anche nei suoi confronti. 

Scorrendo i commenti si leggono storie di donne che venivano spiate dalla serratura del bagno, donne trattate come oggetti, storie di abusi di potere. «È una cultura sistemica, in cui le agenzie affondano le loro radici. È il momento di condannare questi atteggiamenti». Anche qui, bisogna evidenziare come molte donne fossero state sminuite e screditate nel momento in cui avevano portato alla luce tali problematiche, sottolineando come denunciare non è sempre la via più facile, e può mettere a rischio la stessa vittima.  

Dunque, siamo di fronte all’ennesima storia in cui le donne non possono stare mai tranquille, con la paura, anche in ufficio, di essere oggetto di sguardi viscidi e proposte indecenti, consapevoli di essere merce di scambio sia online che in presenza. 

In questo senso, le donne paiono destinate ad una vita sull’attenti, per evitare l’ormai classico “te la sei cercata”. Una vita svilente e degradante, mentre sembra ancora lunga la strada perché siano trattate semplicemente per ciò che sono: esseri umani.


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