Vespri siciliani Erulo Eroli

Vespri Siciliani, quando una molestia fece insorgere Palermo

I Vespri Siciliani, in quella Pasquetta insanguinata del XIII secolo tra le strade di Palermo, sarebbero iniziati (tradizione e retorica vuole) per una molestia subita da una donna.


Per difendere l’onore e la propria donna alcuni uomini sono disposti a tutto, anche a rovesciare un governo. Detta così, sembra un’esagerazione, ma è proprio quello che la tradizione narra a proposito dell’inizio dei Vespri Siciliani, le rivolte popolari scoppiate per cacciare i Francesi dalla Sicilia. Siamo a Palermo, nel 30 marzo 1282, ed è al «vespro» (intorno all’ora del tramonto, come suggerisce il termine stesso) che una “toccatina di troppo” ha acceso la miccia su una pericolosissima polveriera, quella Sicilia sotto il potere degli Angioini.

Iniziano così, secondo la tradizione, i moti rivoluzionari contro i Francesi, ed è con questo episodio che i siciliani hanno raccontato questa pagina di storia patriottica: un gesto sbagliato nei confronti di una donna palermitana.

Sempre secondo la tradizione, l’insurrezione sarebbe scattata dopo una perquisizione finita male: pare che un soldato francese ubriaco, giunto fino a noi col nome di Drouet – o Droetto, in italiano – dovesse controllare una dama palermitana per assicurarsi che non avesse armi.

Probabilmente il soldato palpeggiò le parti intime della donna; sta di fatto che Drouet ne uscì morto, ammazzato dal marito della dama “violata”, il quale ha assistito alla scena prima di ingaggiare una colluttazione col francese. La spada sottratta al soldato fu la prima lama a tingersi di rosso, a sporcarsi del sangue angioino.

Tutta colpa di un gesto disonorevole?

I moti partirebbero dunque da un principio d’onore: la difesa della donna dai soprusi stranieri, il tutto nel bel mezzo di uno scontro tra popoli. I Francesi così regali e così eleganti, i Siciliani focosi e gelosoni, con cui basta un niente per scatenare il putiferio.

C’è l’incontrovertibile testimonianza oculare del marito, del maschio, disonorato pubblicamente, obbligato a reagire alla palpata del francese (non stupisce la scelta narrativa, oggi rintracciabile in «stuprano le nostre donne» e slogan simili, sempre efficaci nella retorica “di pancia” contro l’invasore). Allora la Sicilia intera esplose in un tumulto rabbioso in nome delle sacre natiche della donna violata.

Ma quella donna non è altro che la Sicilia vittima di soprusi. Che si sia trattato di una perquisizione andata male, di una palpata o – come affermano altre fonti – di un pizzicotto sul sedere, la verità sta tutta nell’oppressione angioina, questa sì, storicamente accertata.

La ribellione siciliana fu violenta, spietata. Alcune fonti storiche dicono che l’evento accadde il 30 Marzo, altre menzionano il 31 Marzo, ma è certo che si trattasse del giorno di Pasquetta. Siamo alla funzione serale dei Vespri, è il Lunedì dell’Angelo, e certamente qualcosa succede sul sagrato della chiesa del Santo Spirito a Palermo. Ed è un evento che si diffonde per tutta Palermo, al grido di «morte ai Francesi!».

Perché tanto odio per i Francesi?

A Palermo la “caccia al Francese” divenne un massacro: alle prime luci dell’alba si potevano scorgere i cadaveri di un numero non precisato (centinaia o migliaia) di francesi riversi nelle strade palermitane. I sopravvissuti francesi scamparono alla ferocia siciliana solo nascondendosi sulle navi.

Si racconta che i rivoltosi siciliani, per individuare i francesi che si nascondevano fra i popolani, chiedessero di pronunciare la parola siciliana «cìciri» (ceci, in italiano). Si tratta di uno shibboleth, una particolare parola dalla sonorità complessa che permette di distinguere il dialetto dalla sua imitazione. 

Coloro che venivano traditi dalla propria pronuncia francese, che storpiava la parola in sciscirì o chichiri, venivano immediatamente uccisi. Da questo episodio deriva infatti l’espressione popolare «mancu ti fazzi diri ciciri» (neanche ti faccio dire “ciciri”) che intende dire, «neppure ti do il tempo di dire una parola e ti faccio male».

Gli Angioini avevano ottenuto il controllo del Regno di Sicilia nel 1266, anno in cui Carlo I d’Angiò sconfisse Manfredi, figlio di Federico II di Hohenstaufen, nella battaglia di Benevento sostenuta e promossa anche dal papato di Alessandro IV.

Carlo assunse la guida di quel vasto regno composto da Sicilia, Calabria, Basilicata, Puglia, Campania, Molise ed Abruzzo. Finiva così l’illuminata tolleranza sveva, sostituita con una politica crudele e intransigente.

La supremazia di Carlo portò alla persecuzione degli ultimi seguaci della monarchia sveva, privati di ogni possedimento. Il sovrano angioino occupò tutti gli uffici pubblici con funzionari francesi e distrusse ogni istituzione amministrativa e burocratica locale introdotta da Federico II.

La città di Palermo, resa il centro del mondo prima da Ruggero il Normanno e poi da Federico II, all’epoca dei Vespri Siciliani non era più la capitale del regno: i Francesi l’avevano (ri)trasferita a Napoli. Il fisco troppo pressante e il malessere delle baronie, accresciuto dall’avidità e dal protagonismo di Carlo I D’Angiò, infuocarono l’atmosfera siciliana.

La lunga contesa durata decenni per il controllo dell’Isola si concluderà solo nel 1372 (novant’anni dopo!) con la divisione della Sicilia – siglata al trattato di Avignone – tra Angioini e Aragonesi. Questi ultimi, lontanamente imparentati con gli Hohenstaufen (proprio la famiglia di Federico II), l’avranno vinta sui francesi molto tempo dopo, un’altra storia, ma senza nessun maldestro pizzicotto.

In copertina “Vespri siciliani”, Erulo Eroli (1891, GAM)


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