Rapporto Amnesty 2019: lo stato dei diritti umani nel mondo

 

Ogni anno, da ormai quarant’anni, Amnesty International pubblica il Rapporto annuale per informare la società civile dello stato dei diritti umani nel mondo.


Anche quest’anno Amnesty International ha pubblicato il suo Rapporto annuale, il cui obiettivo è definire la situazione dei diritti umani nel mondo, denunciando le violazioni compiute tra il 2019 e il 2020 e mettendo in luce i progressi compiuti nella loro difesa. Tale rapporto, a cura di Infinito Edizioni, è costituito dalle traduzioni delle cinque panoramiche regionali (Europa e Asia centrale, Medio-Oriente e Africa del Nord, Americhe, Asia e Pacifico, Africa sub-sahariana) e da alcune schede-Paese selezionate attraverso alcuni criteri, come la gravità delle violazioni dei diritti umani, le loro relazioni con il governo italiano e la loro rilevanza sia dal punto di vista giornalistico sia a livello strategico sul piano globale.

Le torture subite dai migranti e le responsabilità europee. Tra le maggiori violazioni di diritti umani denunciate da Amnesty riecheggiano, come ogni anno ormai da decenni, quelle subite da migranti e richiedenti asilo, partendo dal Paese d’origine allo Stato ospitante: senza soffermarsi sulle motivazioni che spingono migliaia e migliaia di persone a intraprendere viaggi estenuanti per raggiungere i Paesi europei e gli Stati Uniti, ciò che tale rapporto vuole mettere in evidenza sono le condizioni degradanti in cui vengono affrontati questi viaggi e le torture perpetrate, già note a tutta la comunità internazionale. Tuttavia, le inchieste delle Nazioni Unite e i report di denuncia relativi alle violazioni perpetrate nei Paesi di transito non hanno impedito i Paesi definiti “di arrivo” a stringere accordi con tali Stati per garantire il contenimento dei flussi migratori. In particolare, nel rapporto si fa riferimento all’accordo Italia-Libia (rinnovato a novembre 2019 anche se è ormai nota l’esistenza dei campi di detenzione per i migranti) e l’accordo Europa-Turchia del 2016 (utilizzato da quest’ultimo per tenere sotto scacco l’Unione Europea). In altre parole, Paesi considerati democratici legittimano quei maltrattamenti e torture al di fuori della propria giurisdizione, scaricando le proprie responsabilità in nome della “sicurezza nazionale”.

Simile trattamento è riservato in molte aree del mondo anche alle minoranze etniche, considerate come una minaccia alla sicurezza nazionale: in Cina, ad esempio, si è registrato un incremento della repressione delle minoranze presenti sul territorio nazionale. In particolare, Amnesty riporta alcuni dati recenti relativi alle persone di etnia uigura – minoranza musulmana presente nella provincia Xinjiang (Cina) – detenuti nei campi di lavoro per convertirli e “deradicalizzarli”.

La repressione dei movimenti di protesta. Un dato interessante che accomuna tutte le regioni del mondo riguarda la nascita e la diffusione di un numero notevole di movimenti di protesta, paragonabile ai movimenti nati nel 2010, come quelle nel contesto delle primavere arabe: nel 2019, infatti, milioni di persone sono scese in piazza per chiedere diritti, giustizia, libertà, rispetto per l’ambiente, fine della corruzione e delle disuguaglianze. Il rapporto Amnesty ci informa che si sta formando una nuova generazione di attivisti e difensori di diritti umani: Nicholas Bequelin, direttore di Amnesty International per l’Asia orientale, l’Asia sudorientale e il Pacifico, ha dichiarato: «Il 2019 in Asia è stato un anno di repressione, ma anche di resistenza. Se i governi hanno cercato di demolire le libertà fondamentali, le persone hanno reagito e i giovani sono stati in prima fila in questa lotta».

Esempio emblematico di attivismo e resistenza nel continente asiatico è il movimento di protesta di Hong Kong, che da marzo 2019 popola le piazze della città: motivo iniziale che ha portato allo scoppio delle manifestazioni è stato il dissenso verso il disegno di legge sull’estradizione dei latitanti (successivamente ritirato); tuttavia, i tentativi di repressione e l’eccessivo uso della forza da parte delle forze dell’ordine contro i manifestanti (utilizzo di gas lacrimogeni, arresti arbitrari e maltrattamenti durante la detenzione) ha generato l’effetto contrario e ha portato all’intensificazione delle proteste. Oltre al continente asiatico, anche l’America Latina si è distinta per la formazione di nuovi movimenti di protesta per chiedere trasparenza da parte delle autorità e rispetto dei diritti umani: secondo il rapporto, nel contesto delle proteste, sono state uccise almeno 202 persone, di cui 83 ad Haiti, 47 in Venezuela, 35 in Bolivia, 22 in Cile, otto in Ecuador e sei in Honduras.

Per quanto riguarda il Medio Oriente, le manifestazioni sono state crudelmente represse dalle autorità: in Iraq le vittime sono state circa 500; in Iran i manifestanti uccisi sono stati 300 e circa un migliaio di loro sono stati arrestati e feriti. Invece, nell’Africa sub-sahariana, le proteste in Sudan hanno portato alla deposizione del presidente Omar al-Bashir, alla guida del Paese da trent’anni, e la promessa da parte delle nuove autorità della stesura di riforme attente ai diritti umani.

Anche se il livello di repressione risulta lieve rispetto ai dati appena riportati, anche in Europa sono stati registrati episodi di forte repressione da parte delle forze dell’ordine durante dimostrazioni in piazza, come avvenuto in Francia, Austria e Spagna, violando i diritti alla libertà di riunione pacifica e di espressione. Come è già avvenuto in Italia in passato con i fatti del G8 di Genova, succede molto spesso che gli Stati democratici, in cui si registrano abusi di potere e utilizzo eccessivo della forza da parte delle forze dell’ordine, non riescono a portare questi ultimi di fronte alla giustizia per rispondere dei reati commessi.

Un nuovo campo di repressione. La rivoluzione digitale e lo sviluppo di nuove tecnologie, in gran parte del mondo sono simbolo di abbattimento di barriere e affermazione di nuovi diritti e libertà individuali, ma in alcuni Stati rappresenta invece un nuovo campo di repressione: in Medio Oriente, ad esempio, giornalisti, attivisti e blogger sono stati arrestati e hanno subito processi per aver espresso la propria opinione online nei confronti delle autorità.

Sempre in Medio-Oriente, le autorità hanno limitato l’accesso alla rete e la condivisione delle notizie online: ad esempio, durante manifestazioni in Iran (novembre 2019) l’accesso a Internet è stato bloccato per evitare la diffusione di foto e video delle violenze commesse nei confronti dei manifestanti. In Egitto e in Palestina le autorità hanno censurato siti e portali di notizie, mentre in Iran non è possibile utilizzare le app di Facebook, Telegram, Twitter e YouTube.

Progressi nella tutela dei diritti umani. Non tutte le informazioni raccolte nel Rapporto Amnesty sono negative. Tra tutti i progressi compiuti in materia di difesa dei diritti umani ottenuti quest’anno, è doveroso ricordare il riconoscimento da parte del Tribunale Penale Internazionale dei crimini di guerra commessi nei Territori palestinesi occupati. L’avvio delle indagini potrebbe far luce anche sulla morte di manifestanti ad opera delle forze israeliane nella Striscia di Gaza e su altre violazioni dei diritti umani commesse in passato in Medio-Oriente.

Inoltre, in tutte le regioni sono stati fatti passi avanti in materia di tutela di diritti umani e libertà civili e politiche. La deposizione del presidente del Sudan e il ritiro della proposta di legge sull’estradizione a Hong Kong, dunque, sono solo alcuni dei risultati ottenuti dalla lotta contro le limitazioni dei diritti e delle libertà: in Taiwan, ad esempio, i matrimoni fra persone dello stesso sesso sono legali grazie a una lunga campagna di informazione ed educazione; le autorità di Brunei, invece, hanno rinunciato all’introduzione della lapidazione in caso di adulterio e relazioni sessuali tra uomini; il primo ministro della Malesia, Najib Razak, comparirà in giudizio con l’accusa di corruzione; infine, per la prima volta due donne sono state nominate giudici della Corte suprema delle Maldive.

È vero che l’elenco dei progressi raggiunti è molto breve rispetto alle violazioni di diritti e alle repressioni avvenute nel mondo solo quest’anno, ma bisogna tener conto che il solo fatto che tali informazioni siano a nostra disposizione è già, in sé, un fatto positivo. Essere a conoscenza di ciò che accade nel mondo e attorno a noi in materia di violazioni di diritti, però, non è un’azione fine a se stessa. Come scrive Moni Ovadia nella prefazione del Rapporto annuale 2019-2020 «finché quel lume rimane acceso [facendo riferimento al simbolo iconico che  rappresenta l’associazione] nessuna violazione del diritto, nessun crimine, neppure il più lontano fra quelli lontani dal mondo delle certezze e dei privilegi, sarà sottaciuto, nessuno sarà mai più legittimato a dire non sapevo, non potevo sapere».

Grazie al lavoro che Amnesty International annualmente svolge con la stesura di questo rapporto, infatti, non possiamo dire di non sapere o di non avere i mezzi per conoscere ciò che accade nel mondo, ma soprattutto, grazie ad Amnesty e ad altre organizzazioni internazionali e locali possiamo affermare che non basta più venire a conoscenza ed essere informati su ciò che accade attorno a noi, perché nel momento in cui si viene a conoscenza di tutto ciò «nessuno può chiamarsi fuori».


Foto in copertina di Studio Incendo

 

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