Cannabis light: così parlò la Cassazione

Di Adriana Brusca – In queste ore non cessa il dibattito in merito alla sentenza emessa dalle Sezioni Unite Penali della Corte di Cassazione, lo scorso 30 maggio 2019. Si tratta di una pronuncia particolarmente attesa, non solo dai destinatari del provvedimento, ma da tutti gli operatori che, a seguito della legge 242 del 2016, hanno creduto e investito nel settore della canapa.

Canapa

Nuovamente, la magistratura si è trovata a dover colmare, in via interpretativa, le lacune normative lasciate dalle forze politiche che, incapaci di pervenire ad una soluzione maggioritaria in materia di canapa, hanno creato un limbo giuridico nel quale hanno risieduto, negli ultimi tre anni, commercianti, produttori e consumatori di canapa.

Per comprendere la pronuncia della Corte, occorre ricordare che la disciplina vigente –ossia la legge 242 del 2016 – prevede la possibilità di coltivare legalmente canapa, purché rientri in una delle 64 varietà definite “industriali” dal catalogo europeo, e a condizione che il suo THC – ossia il principio psicotropo – sia inferiore allo 0,2%, con un limite di tolleranza compreso comunque nella soglia dello 0,6% massimo.

Tale disciplina, sebbene sia nata allo scopo di fornire una maggiore tutela ai coltivatori industriali della canapa, non menzionando in alcun modo le infiorescenze, ha di fatto permesso lo sviluppo di un mercato che, secondo i dati forniti da Coldiretti, ha prodotto un giro d’affari di oltre 40 milioni di euro del 2018; basti pensare che – sempre secondo Coldiretti – negli ultimi 5 anni si dono decuplicati i terreni di canapa, dai 400 ettari nel 2013 ai 4000 nel 2018.

Lo spazio interpretativo lasciato da queste disposizioni ha consentito anche ai negozianti – e non solo ai coltivatori – di poter commercializzare prodotti contenenti sostanze comprese nei limiti predetti. Si sono così diffusi, negli ultimi anni, i Cannabis Shop, nei quali è possibile acquistare cannabis light, ossia cannabis che, pur conservando le proprietà del cannabidiolo, è priva dei suoi effetti psicoattivi.

Sono, più precisamente, infiorescenze delle piante coltivate ad uso industriale e, dunque, destinate alla produzione di determinati beni di consumo, come tessuti, materiali edili o cosmetici. Quello della cannabis light è un mercato che ha generato, negli ultimi anni, un impatto notevole nell’economia nazionale e si ritiene che abbia favorito la creazione di 10 mila nuovi posti di lavoro.

prodotti cannabis

Alla luce di questi fatti, nel silenzio politico, la Corte è stata chiamata a decidere se interpretare le disposizioni di cui alla legge 242 del 2016, in maniera più o meno restrittiva e, dunque, se far rientrare nello spazio di legalità contemplato da questa stessa legge, anche le condotte diverse alla coltivazione della canapa, con specifico riguardo alla  commercializzazione di cannabis.

Si ricordi che le Sezioni Unite sono intervenute a seguito delle pronunce discordanti delle diverse Sezioni Penali, tra cui la più nota è stata resa con la Sentenza n. 4920 del 2019, che ha sancito come lecita la commercializzazione dei derivati della canapa, purché provengano, come detto in precedenza, da canapa prevista tra le specie contemplate nel catalogo europeo, con un THC compreso entro il limite tollerato dello 0,6%; ciò perché, ha affermato la Corte, ai fini giuridici tale quantitativo non può essere considerato sostanza stupefacente.

Le Sezioni Unite, alla luce di questo quadro, nella loro ultima pronuncia hanno statuito che: “integrano il reato di cui all’art. 73, commi 1 e 4 del DPR 309/1990”  – articolo rubricato “Produzione, traffico e detenzione illeciti di sostanze stupefacenti o psicotrope” – «La commercializzazione di cannabis sativa e, in particolare, di foglie, infiorescenze, olio, resina, ottenuti dalla coltivazione della predetta varietà di canapa» – e, di conseguenza, sarebbero illeciti i derivati acquistabili nei Cannabis shop, perché non compresi nell’ambito di applicazione della legge 242 del 2016, «salvo che tali prodotti siano privi di efficacia drogante».

Si tratta di una pronuncia parziale, in attesa del deposito della sentenza, che motiverà le ragioni della decisione con la quale la Corte ha già messo in luce due punti fondamentali: il primo è che la legge 242 del 2016 fa chiaro riferimento alla sola condotta della coltivazione della canapa, escludendo, di fatto, quella della commercializzazione dei derivati, salvo per alcune ipotesi tassativamente previste dalla legge; il secondo punto, però, è che sono commercializzabili tutti quei derivati della canapa che siano privi di efficacia drogante.

È una formulazione ambigua, quella della Cassazione, che non fa volontariamente menzione del termine “stupefacente”. Mentre nel medesimo procedimento il Procuratore Generale della Suprema Corte, la Dott.ssa Fodaroni, aveva chiesto di inviare gli atti alla Corte Costituzionale, affinché si pronunciasse sulla commercializzazione della cannabis light, i Giudici delle Sezioni Unite hanno preferito sollecitare il legislatore, ancora una volta, ad intervenire in materia.

Il cuore della questione, come sostenuto dall’Avv. Zaina, difensore nel giudizio de quo, è che: «Per come è scritta, la massima della Cassazione non scioglie alcuni nodi, come quello della definizione dell’efficacia drogante». Ciò significa, innanzitutto, che occorre stabilire cosa si intenda per “efficacia drogante”: se il singolo negoziante riesce a dimostrare, in giudizio, che i prodotti da lui commercializzati siano privi di efficacia drogante, la condotta non può essere punibile; sussiste, di fatto, un nuovo limbo di incertezze, che lascia spazio ad interpretazioni anche particolarmente restrittive e disomogenee, ma che non incide direttamente sull’attività dei cannabis shop.

esterno di un negozio di cannabis light

A seguito di una campagna contro la vendita della cannabis light, messa sostanzialmente in atto dalla Lega negli ultimi mesi, il Vicepremier Salvini non tarda ad interpretare la pronuncia della Cassazione quale sostegno alla sua linea politica, omettendo, forse, di cogliere quella sollecitazione che sembrava pervenire proprio dalla Corte, circa la necessità di colmare quei vuoti normativi che non possono essere risolti in ambito giudiziario.

Forse troppo deboli le posizioni assunte in materia dal M5S e dal PD; eppure si tratta di una questione impellente, che necessita di un compromesso e che non può più essere rimandata. I dati sono chiari: nel 2018, 24 milioni di adulti e il 20,7% dei giovani di età compresa tra i 15 e i 34 anni hanno fatto uso di cannabis in Italia, un dato superato, in Europa, solo dai giovani francesi, la cui percentuale si attesta al 21%.

Il Consiglio Superiore di Sanità, in uno dei suoi pareri emessi in funzione consultiva, ha stabilito che «non può essere esclusa la pericolosità dei prodotti contenenti o costituiti da infiorescenze di canapa» e, per tale ragione, ha auspicato che siano attivate «misure atte a non consentirne la libera vendita». Il parametro utilizzato, dunque, è l’impossibilità di escludere la pericolosità di questa sostanza.

Tenuto conto dell’esistenza di una percentuale consistente di cittadini italiani che ha fatto uso di cannabis, e considerato che proibirne il consumo non si è dimostrata una misura sufficiente a contrastarne l’utilizzo, forse, potrebbe essere arrivato il momento di riconoscere pubblicamente – fuori dai tabù – che nella nostra società, questo fenomeno esiste e ha una portata non sottovalutabile; è per questo che risulta essenziale che le forze politiche si confrontino chiaramente sul punto, prendendo in esame, anche mediante l’ausilio di tecnici, tutti gli studi scientifici rilevanti in materia.

È stato stimato che il mercato della cannabis illegale frutta in Italia circa 4 miliardi di euro; c’è da chiedersi, se più che proibirlo, questo fenomeno non sia il caso di accettarlo e disciplinarlo, non fosse altro che per limitare il potere delle organizzazioni criminali che operano in questo settore, come sostenuto dalla Direzione Nazionale Antimafia e Antiterrorismo (DNA) che, per tale ragione, si è espressa a favore di un processo di legalizzazione regolamentato, in regime di monopolio statale.


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