Il muro dell’apartheid in Cisgiordania che non piace agli artisti

Viene chiamato muro di separazione israeliana. Barriera di protezione dagli attacchi terroristici palestinesi. In Cisgiordania è definito muro di segregazione, e viene difatti denominato come il muro dell’apartheid.


Il muro di separazione è un sistema di barriere fisiche costruito nella primavera del 2002 da Israele in Cisgiordania. Si tratta di muro in cemento armato e filo spinato, munito di torrette di controllo e porte elettroniche, il cui tracciato è controverso ed è stato ridisegnato più volte negli anni, soprattutto a causa di pressioni internazionali; la barriera, che arriva fino a un’altezza di 13 metri e si estende per quasi 750 km, parte dal nord della città palestinese di Tulkarem e si estende fino a sud di Betlemme, passando anche da Gerusalemme.

La barriera è stata costruita quasi interamente sulle terre palestinesi e ha un impatto molto forte sulla vita delle persone: ogni giorno, infatti, migliaia di Palestinesi che lavorano in Israele sono costretti a fare lunghe file ai checkpoint controllati dall’esercito israeliano. Perchè se per il popolo israeliano la barriera è vista come struttura di protezione contro gli attacchi terroristici, per il popolo palestinese sempre più ristretto nelle sue “non terre”, è un mezzo di oppressione, di segregazione razziale.

Potremmo serenamente paragonarla all’apartheid africana, se non peggio, come suggerisce Triq Dana – docente di “Conflict and humanitarian studies” presso il Doha Institute for Graduate Studies ed autore di numerosi studi sul colonialismo d’insediamento israeliano in Palestina – in una recente intervista per Fanpage “La versione israeliana dell’apartheid è peggiore di quella vissuta dai neri in Sudafrica”. Inoltre gli oltre due milioni di palestinesi residenti nella Striscia di Gaza subiscono da Israele “gravi violazioni dei loro diritti umani fondamentali, incluso il diritto di movimento, l’accesso all’assistenza sanitaria e l’importazione di beni essenziali”.

Gli artisti e i muri

“I muri non sono solo confini politici artificiali che pericolosi fascisti come Trump o Netanyahu erigono per cercare di preservare i loro imperi e colonie in rovina. I muri sono anche un invito a dipingere, a sognare, a sfidare, a smantellare ciò che rappresentano” (Hamid Dabashi, Al Jazeera). Non ci dilunghiamo sugli aspetti giuridici e politici che il muro comporta, ma parliamo di artisti. Anche se spesso arte e politica si sono ritrovati una di fronte all’altro, ognuno nemico dell’altro, l’arte è sempre stata uno dei pochi mezzi potenti di rivendicazione sociale. I muri dunque diventano tele, piattaforme per esprimere il dissenso, amplificatori di pensiero. I muri divisori, separatori, diventano messaggi di speranza una volta passati sotto le mani degli artisti. 

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Nel 2001, nel mondo, esistevano 17 barriere artificiali costruite per chiudere i confini, fermare i migranti o nascondere la povertà; oggi ce ne sono 70. Dal 2002 dopo la costruzione della barriera in Cisgiordania, l’attenzione degli street artist è stata calamitata in queste terre senza pace. L’organizzazione londinese Pictures on Walls, nel 2007, ha portato in Palestina 14 artisti occidentali per realizzare dei graffiti sulla barriera.

Tra gli artisti che hanno messo a disposizione la propria arte a difesa di soprusi e discriminazioni sociali, tra cui troviamo Banksy, il misterioso street artist originario di Bristol, che si è distinto per la propria capacità di portare l’attenzione comune, in modo esplicito e talvolta volutamente trasgressivo e provocatorio, a problematiche sociali che meriterebbero maggiore attenzione e consapevolezza.

L’ostello di Banksy

Il lavoro di Banksy a Betlemme era già noto, per altri lavori incentrati sulla denuncia dell’oppressione verso il popolo palestinese, come ad esempio “La colomba corazzata”, “Il lanciatore di fiori” e “Gli angeli che cercano di creare un varco nel muro”.

Ma l’opera che ha concretizzato del tutto il suo pensiero verso l’oppressione, data anche dal muro, è stata la costruzione di un ostello, il Walled Off Hotel, aperto nel 2017, definito dallo stesso Banksy “l’albergo con la vista peggiore del mondo”, poiché si affaccia direttamente sul muro. L’hotel, che al suo interno ospita anche una sorta di museo, per la presenza di numerosissime opere dell’artista, quali dipinti, graffiti alle pareti, sculture e installazioni, è gestito da un’associazione locale che organizza anche visite turistiche lungo la barriera per mostrarne le opere più iconiche, immerse nel tessuto urbano della Betlemme palestinese.

Manipolazione dell’arcobaleno

Nel 2015 l’artista Khaled Jarrar, intervenne sul muro israeliano dipingendo i colori della bandiera della pace. Il murales ha avuto le ore contate e l’artista in una lettera spiega cosa è accaduto dopo la sua realizzazione. Dopo essere divenuta virale nelle poche ore successive alla realizzazione del murales, un piccolo gruppo palestinese forviando il messaggio dei colori della bandiera che diventa nel corso degli anni simbolo della comunità LGBTQ, decidono di ricoprirlo durante la notte.

Nella lettera di Jarrar si legge: “Le immagini dell’arcobaleno si sono diffuse ovunque e in modo virale, e perfino la Casa Bianca è stata illuminata con quei colori. [in riferimento alla legge sulle unioni omosessuali negli Stati Uniti] Mi è così venuto da riflettere su come tanti attivisti internazionali e cittadini comuni stessero festeggiando la libertà di un gruppo che storicamente è sempre stato oppresso, sull’uso dell’arcobaleno come simbolo di libertà e di uguaglianza e su che cosa poteva rappresentare per altri gruppi vittime di oppressione.

Ho ripensato alle nostre battaglie quotidiane per l’uguaglianza, la libertà e la giustizia qui in Palestina. Mentre la gente negli Stati Uniti festeggia questa vittoria – e io festeggio insieme a loro – noi in Palestina viviamo ancora segregati dalle nostre comunità e dalle nostre famiglie a causa delle politiche razziste e bigotte di Israele.

Il muro dell’apartheid, costruito in violazione della legge internazionale, taglia la nostra terra e ci separa dalla nostra acqua. Divide i contadini dai loro alberi e dai loro raccolti, le città dai villaggi, i fedeli dai luoghi di culto, i genitori dai figli, i figli dalle scuole, gli innamorati gli uni dagli altri. Impedisce alle persone di sposarsi e di vivere insieme, e distrugge ogni possibilità di vivere pacificamente in un paese unito.

Da 67 anni lottiamo insieme contro la pulizia etnica, l’occupazione e l’apartheid israeliani e questo muro è solo una – per quanto particolarmente significativa – delle molte barriere erette a privarci della libertà.” “Mi rincuora il fatto che la maggioranza dei palestinesi che mi hanno scritto nel corso di questa controversia sostenga la mia azione. Man mano che i giorni passavano, le loro voci sono uscite sempre più allo scoperto e ho conosciuto molte altre persone della mia comunità che condividono il mio amore per la libertà e per il nostro diritto di esprimere le nostre opinioni utilizzando modalità creative”.

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L’atto di imbiancare nuovamente il muro aveva attirato l’attenzione dei media dunque l’artista rilasciò un’intervista ad Associated Press per spiegare i suoi intenti inerente all’opera muraria. “Sono rimasto costernato quando il giorno dopo ho letto il loro articolo, in cui si utilizzava la mia opera a sostegno di una narrazione che celebrava la presunta tolleranza di Israele verso tutti gli LGBTQ, palestinesi compresi.

Capii che l’intera storia era stata distorta dalla narrativa filoisraeliana in un’operazione di “pinkwashing”, sostanzialmente censurando quel che era accaduto, comprese le mie intenzioni. Il pinkwashing è una forma di “distrazione” che utilizza le presunte politiche gay-friendly di Israele per nascondere i più gravi crimini dell’occupazione.[…] Si affermava che Israele, in virtù della sua presunta tolleranza, è un posto sicuro per i palestinesi che hanno relazioni omosessuali; questo nonostante non esistano leggi che offrano alcun tipo di protezione in Israele ai palestinesi i quali, proprio in quanto palestinesi, spesso invece subiscono trattamenti particolarmente brutali da parte delle autorità israeliane.”

Questo esempio ci mette davanti ad atteggiamenti che spesso vengono utilizzati dal sistema politico, ovvero manipolare i messaggi scomodi degli artisti. 

“Tear down the wall”, il messaggio di Roger Waters

La leggenda del rock Roger Waters non è nuovo alle lotte politiche e lo si evince dai suoi lavori musicali, creati non solo per fare musica ma per lanciare veri e propri messaggi di denuncia sociale. Inoltre, è nota la posizione di Waters a sostegno dei diritti palestinesi, condannando le politiche israeliane sui territori occupati.

Posizioni espresse anche in modo duro e diretto durante un’intervista al quotidiano di Tel Aviv Yediot Ahronot, in cui ha definito il muro israeliano peggiore del muro di Berlino. “Questo si chiama apartheid! È chiaro ed evidente, non si può negare… Quando una razza o un gruppo etnico controlla gli altri mediante la sua forza, questo è il crimine di apartheid e questo è lo status quo imposto quotidianamente nei Territori Occupati… E sono pronto a ripeterlo centinaia di volta. Il premier Netanyahu può anche negarlo fino alla fine dei suoi giorni, ma è evidente. Mi spiace che alcuni dei miei fan in Israele siano sensibili a queste dichiarazioni, ma questi sono i fatti è[…] Il vostro muro è cento volte più raccapricciante del muro di Berlino, il vostro viene mantenuto in piedi, l’altro è stato distrutto molto tempo fa”.

Nel 2006 il occasione di una sua visita in Israele per partecipare ad un concerto in un villaggio di pacifisti arabi ed ebrei, ebbe modo di visitare anche la zona della barriera ed è lì tra i vari murales che scrisse anche lui sul muro Tear down the wall. Tra le canzoni da lui cantate al concerto ci fu ovviamente la suite di The Wall, che Waters cantò anche nel 1990 a Berlino davanti al muro che aveva separato le due Germanie.


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