Guerra in Ucraina. Kiev non sia una nuova Sarajevo

Sono passati trent’anni dall’assedio di Sarajevo. Una guerra durata quattro anni, che ha lasciato ferite profonde e che non possiamo permetterci di dimenticare.


Nelle prime ore di giovedì 24 febbraio le forze armate russe hanno invaso l’Ucraina, rendendo tristemente reali i timori manifestati nelle ultime settimane. Il susseguirsi di minacce poco velate e di bombardamenti da parte di Putin, le sanzioni inflitte alla Russia dalla comunità internazionale, la forza della resistenza ucraina guidata da un presidente che sta dando prova di una inaspettata leadership, i pallidi tentantivi di negoziazione, rendono il conflitto ben lontano dalla sua risoluzione. 

Ad oggi, è difficile fare previsioni su cosa accadrà nell’immediato futuro. La certezza è solo una: la guerra è tornata in Europa, ad appena trent’anni dall’ultimo sanguinoso conflitto.

«L’Europa ha sprecato 30 anni: Kiev non sia una nuova Sarajevo»

È Andrea Riccardi, fondatore della Comunità di Sant’Egidio, a rievocare lo spettro di Sarajevo e di quella ferita, nel cuore dell’Europa, ancora aperta. 

Una guerra il cui bilancio è il più grave registrato in Europa dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. Al termine del conflitto le vittime stimate saranno circa 100 mila.

Guerra Bosniaca

Dopo la morte del dittatore Tito, nel 1980, le tensioni etniche nei Balcani aumentano e con esse, complice il rafforzarsi della retorica nazionalista del presidente serbo Slobodan Milošević, aumentano anche le mire indipentistiche delle sue sei repubbliche. La Jugoslavia, nata alla fine del primo conflitto mondiale, in breve tempo si disintegra. Nel dicembre del 1990 arriva la dichiarazione di indipendenza della Slovenia, alla quale seguono  quelle di Croazia e Macedonia. Il 3 marzo 1992 tocca alla Bosnia-Erzegovina proclamarsi Stato sovrano, stabilendo la propria capitale a Sarajevo.

La dichiarazione di indipendenza bosniaca arriva dopo il referendum, tenutosi tra il 29 febbraio e il primo marzo 1992, nel quale oltre il 90 per cento dei bosniaci e dei croati-bosniaci vota a favore dell’indipendenza mentre la minoranza serba decide di non parteciparvi avendo qualche mese prima votato, a un altro referendum, per rimanere unita alla Serbia e al Montenegro.

Il voto referendario bosniaco non è altro che lo specchio della complessa multiculturalità del Paese, la cui popolazione, secondo un censimento del 1991, è per il 43,5 per cento bosniaca, per il 31,2 per cento serba, per il 14,4 per cento croata e per il restante 7 per cento di altre nazionalità, principalmente Rom, ebrei e cittadini con genitori di diversa etnia. 

La Bosnia, all’epoca dei fatti, presenta quindi una maggioranza musulmana e una minoranza composta da serbi ortodossi e croati cattolici. La stessa capitale, Sarajevo, ha una popolazione mista composta per circa la metà da musulmani, per circa il 7 per cento da croati e per circa un terzo da serbi.

La scelta di voto dei serbi bosniaci rappresenta l’anticamera degli eventi che da lì a breve sconvolgeranno l’intera regione. I serbi bosniaci, aspirando alla formazione della “Grande Serbia”, ossia uno Stato serbo che avrebbe dominato l’intera regione dei Balcani, considerano l’indipendenza della Bosnia un ostacolo verso la realizzazione del sogno nazionalista di Milošević.

Infatti, pochi giorni dopo la dichiarazione dell’indipendenza, circa 13 mila uomini dell’Esercito Serbo-Bosniaco iniziano le operazioni di accerchiamento della capitale bosniaca. Comincia così l’assedio di Sarajevo, il più lungo della storia moderna.

Durerà 1425 giorni. 43 mesi. 3 anni e mezzo. Il cessate il fuoco arriva nell’ottobre del 1995 con l’accordo di Dayton (Ohio) che sancisce la fine della guerra e la nascita della repubblica federale di Bosnia-Erzegovina. Ma è solo il 29 febbraio del 1996 che il governo bosniaco dichiara ufficialmente la fine dell’assedio. 

Saranno quattro anni di scontri, bombardamenti, violenze, strupri di massa, eccidi. 

Gli anni della vergogna

Il 5 aprile 1992, il giorno prima del riconoscimento dell’indipendenza della Bosnia-Erzegovina da parte della Comunità Europea, uomini serbi armati sparano contro civili radunati in una manifestazione spontanea per la pace diretta verso il parlamento bosniaco, che secondo voci era stato occupato dalle forze serbe entrate in città. È l’inizio dei combattimenti in città. I giorni successivi hanno inizio i bombardamenti.

Dalle colline intorno a Sarajevo le milizie serbo bosniache adoperano artiglieria pesante, mortai e carri armati mentre all’interno della città vengono piazzati cecchini in diversi punti strategici e in cima agli edifici più alti, da dove sparano e lanciano granate sui civili. Alla fine del conflitto tutti gli edifici della città sono stati danneggiati dai bombardamenti e portano i segni della distruzione, inclusi edifici governativi e la sede delle Nazioni Unite. La Biblioteca Nazionale, contenente libri e codici antichi, viene data alle fiamme dal lancio di cannonate e bombe incendiarie. Neanche gli ospedali sono risparmiati dalla furia cieca dell’uomo.

I primi giorni di maggio tutti gli accessi alla città sono bloccati e i cittadini sono imprigionati al loro interno. Sarajevo viene divisa in due distinte zone. I musulmani rimangono  arroccati nel centro storico e nei quartieri di Dobrinja e Butmir, dove passa la pista d’atterraggio dell’aeroporto, mentre i serbi occupano le zone strategiche della città, ossia i quartieri di Ilidža, Novo Sarajevo e Vogošća, fondamentali per la distribuzione di acqua, gas e elettricità. I due fronti sono divisi dal fiume La Miljacka e dal viale principale della città, Ulica Zmaja od Bosne, la “strada del Dragone bosniaco”, tristemente passata alla storia come “il viale dei cecchini”.

Nel 1993, a un anno dall’inizio dell’assedio, la situazione è drammatica. La fornitura di gas, luce e acqua è nelle mani dei serbi, che utilizzano gli approvvigionamenti come merce di scambio. Anche i beni di prima necessità cominciano a scarseggiare. Sadako Ogata, Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati, denuncia che la situazione a Sarajevo è ormai insostenibile. 

La città è in mano alle bande armate che hanno il monopolio del mercato nero, dei giri di droga e prostituzione e gli abitanti sono sull’orlo della fame e rischiano di morire di inedia o di malattie tifoidi, anche a causa delle scarse condizioni igieniche. Nei primi sei mesi del 1993 per aggirare l’embargo di armi (imposto dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite il 25 settembre 1991) e per permettere l’ingresso di aiuti umanitari viene scavato in segreto uno stretto tunnel, lungo circa un chilometro, che collega Dobrinja e Butmir, le due parti libere della città. Il “tunnel di Sarajevo” permise l’arrivo di armi, cibo e altri materiali utili e permise ai bosniaci di sopravvivere.

E l’Onu?

Dal 1992 il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite si limita ad approvare una serie di risoluzioni sulla guerra in corso nei Balcani. Si tratta di risoluzioni prive di una reale capacità di impatto, per lo più vaghe e generiche.

Con la risoluzione 743 del 21 febbraio 1992 viene istituita la missione UNPROFOR (United Nations Protection Force) il cui compito è sorvegliare i termini del cessate il fuoco siglato nel frattempo a Ginevra tra Serbia e Croazia. Il mandato viene esteso anche al conflitto bosniaco ma in modo del tutto insensato: in Bosnia non è in atto alcun accordo di cessate il fuoco e di conseguenza la missione UNPROFOR di peacekeeping non può trovare attuazione.

Seguono altre 150 Risoluzioni che gradualmente incrementano le funzioni di UNPROFOR, senza però provvedere al finanziamento e predisposizione dei mezzi materiali e legali necessari alla loro concreta attuazione, e istituiscono le “aree protette” di Sarajevo, Gorazde, Zepa, Srebrenica, Bihac e Tuzla. 

Come era prevedibile dalle premesse, le Nazioni Unite falliscono clamorosamente nel loro ruolo di protettori. Nelle cosiddette “aree protette”, e dunque sotto lo sguardo “attento” dei caschi blu, avvengono due tragici massacri. Il 5 febbraio 1994, mentre sono in fila per il pane al mercato Merkale di Sarajevo, 68 persone vengono uccise e oltre 140 rimangono ferite sotto i colpi di mortaio sparati dalle colline che circondano la città. Tra l’11 e il 19 luglio 1995 avviene il peggior massacro in Europa dalla fine della Seconda Guerra Mondiale.

Nel corso del genocidio, pianificato e messo in atto dalle forze serbe, trovano la morte tra i settemila e gli ottomila uomini e ragazzi musulmani di Srebrenica, area individuata dalle Nazioni Unite come “sicura”. Le vittime, quasi tutte civili, hanno un’età compresa tra i sedici e i sessant’anni. Vengono radunati dalla polizia e dai soldati serbi per essere fucilati e seppelliti in fosse comuni. Molte delle donne e delle ragazze presenti vengono stuprate. 

«Le donne sono state violentate e abusate sessualmente durante la caduta di Srebrenica, sebbene l’entità di tali abusi rimanga poco chiara», scrive Human Right Watch nel suo rapporto sui fatti di Srebrenica. Perché poco chiara? Perché molte delle sopravvissute sono riluttanti a parlare di stupro, a causa dello stigma nei confronti delle vittime che circonda questo grave crimine.

La violenza di questi massacri è stata così atroce da spingere la Comunità Internazionale, fino a quel momento spettatore passivo della situazione, a intervenire direttamente per porre fine al conflitto. Lo stesso Segretario delle Nazioni Unite  Boutros Boutros-Ghali chiede alla NATO di intervenire.

E nell’aprile del 1994 la NATO interviene. Prima con una serie di bombardamenti e poi con l’Operation Deliberate Force, partita dalle basi italiane nelle prime ore del 30 agosto 1995. I serbi sono costretti ad arrendersi e a partecipare ai negoziati di pace che porteranno agli accordi di Dayton e alla liberazione di Sarajevo.

Secondo la stima delle Nazioni Unite, durante gli anni dell’assedio, a causa dei bombardamenti e dei cecchini, morirono circa 10 mila persone e altre 50 mila rimasero ferite.


Immagine in copertina di Hedwig Klawuttke

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Alessia Lentini

Classe 1993, laureata in giurisprudenza e appassionata di politica. Polemica per natura, scrivere mi aiuta a mettere ordine al mio "caos calmo".