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Ritiro della Francia dal Mali: un nuovo Afghanistan?

La Francia, insieme ai suoi partner europei e internazionali, ha annunciato nel corso di una conferenza stampa il ritiro dal Mali, dopo nove anni dall’inizio dell’operazione Barkhane e due recenti colpi di stato.


Il ritiro della Francia dal Mali non è certamente un fulmine a ciel sereno. I rapporti tra i due governi sono tesi da mesi e continuano a deteriorarsi giorno dopo giorno. 

Lo scorso 31 gennaio il governo del Mali ha annunciato l’espulsione dell’ambasciatore francese Joël Meyer. Al diplomatico francese sono state date 72 ore per lasciare il Paese a causa delle recenti dichiarazioni, ritenute “ostili e oltraggiose”, del ministro degli Esteri francese Jean-Yves Le Drian, il quale ha definito “illegittimo” e “fuori controllo” il governo di transizione maliano dopo la proposta di rimandare le elezioni e di rimanere al potere per altri cinque anni nonostante le richieste internazionali di organizzare in tempi brevi nuove elezioni. 

La volontà di  posticipare al 2025 le elezioni ha determinato conseguenze anche sul piano economico. All’inizio di gennaio la Comunità Economica degli Stati dell’Africa Occidentale (ECOWAS) ha imposto un embargo commerciale e chiuso i confini con il Mali, con il sostegno di Francia, Stati Uniti e Unione. 

Questa decisione non è piaciuta al primo ministro maliano, Choguel Kokalla Maiga, che in una recente intervista con l’Agenzia Anadolu ha apertamente accusato la Francia di “terrorismo politico, mediatico e diplomatico” e di voler influenzare le decisioni dell’ECOWAS, alimentando l’insofferenza della popolazione. «Ci sono migliaia e migliaia e migliaia di maliani oggi che dicono ‘No’ alla Francia. Quindi, ciò che l’Unione europea e la Francia devono fare è rispettare le autorità maliane», ha dichiarato Moulaye Keita, membro del Consiglio nazionale di transizione del Paese.

Ed infatti, alla notizia dell’espulsione dell’ambasciatore francese, migliaia di persone si sono riversate per le strade della capitale Bamako per festeggiare. Molti i cartelli con la scritta “morte ai francesi e ai loro alleati” e foto di Macron bruciate, segno della mai sopita insofferenza nei confronti di quello che non sembra più percepito semplicemente come un alleato contro l’avanzare del terrorismo jihadista. Il ministro degli Esteri maliano, Abdoulaye Diop, ha di recente dichiarato che «non esclude nulla» per quanto riguarda le relazioni tese con l’ex potenza coloniale.

Operazione Barkhane

La missione francese nel Sahel, nota come Operazione Barkhane, ha inizio nel 2013 per contrastare  l’avanzata verso Sévaré e Mopti di gruppi armati jihadisti. 

Il Sahel è una vasta area dell’Africa occidentale che comprende, oltre al Mali, altri 12 Stati ossia Gambia, Senegal, Mauritania, Burkina Faso, Niger, Nigeria, Camerun, Ciad, Sudan, Sud Sudan ed Eritrea. Si tratta di una striscia lunga 8.500 km e vasta circa 6 milioni di km quadrati, priva di risorse, estremamente povera e instabile. La causa dei problemi dell’intera regione è riconducibile al regime coloniale della Francia, presente fino agli inizi del Novecento.

Nel 2012 il Mali, una delle nazioni più povere al mondo, subisce l’avanzare di diversi gruppi armati che si contengono il controllo del nord del Paese e si trova costretto a richiedere l’aiuto delle Nazioni Unite, che nel 2013 attivano la missione MINUSCA

18.000 unità delle forze di pace, tra cui 12.000 militari, vengono collocate all’interno del Paese. Nel 2013 è il momento della Francia, che schiera circa 5.000 soldati per contrastare il terrorismo islamico in Burkina Faso, Ciad, Mali, Mauritania e Niger, dando così inizio all’Operazione Barkhane.


Entrambe le operazioni si rivelano fallimentari. Oltre 260 membri della missione MINUSCA perdono la vita, rendendola una delle operazioni più pericolose della storia nelle Nazioni Unite. Stessa sorte tocca alla Francia. L’operazione Barkhane, la più duratura missione estera francese dalla guerra in Algeria, provoca la morte di 53 soldati francesi e non riesce a riportare la stabilità all’interno della regione, che ha continuato ad essere martoriata da continui attacchi terroristici da parte di gruppi ribelli affiliati ad al-Qaeda.

«La situazione della sicurezza non solo non è migliorata, ma è seriamente peggiorata. Questo è il motivo per cui molte persone stanno mettendo in dubbio la sincerità dell’intervento militare francese e le sue intenzioni», ha spiegato l’analista politico Gilles Yabi. 

La delusione per il persistere del terrorismo islamico si è dunque trasformata presto in rabbia e risentimeneto nei confronti della Francia, deligittimandone la presenza stessa all’interno dello Stato e rianimando lo spirito anticolonialista. Yabi sottolinea come non sia stato solo ed esclusivamente il fallimento dell’operazione Barkhane ad aver determinato il malcontento della popolazione maliana ma che abbiano contribuito anche «vecchi risentimenti, modi inappropriati di esprimersi da parte di alcuni ministri che confermano il pregiudizio di un’arroganza tradizionale, o potenti legami con le élite africane che danno l’impressione che sia Parigi a comandare la politica».

Un nuovo Afghanistan? 

Si va configurando, dunque, sempre di più lo spettro del fallimento dell’azione “salvifica” francese. Si tratta di un giudizio che Macron “rifiuta categoricamente”, ridabendo con forza, nel corso della conferenza stampa di giovedi, l’importanza della presenza francese in Mali, senza la quale lo stesso sarebbe crollato sotti i colpi del terrorismo islamico.

La paura di Macron è che il ritiro dal Mali possa essere paragonato al ritiro degli americani da Kabul avvenuto la scorsa estate. Un paragone che il Presidente non può assolutamente permettersi alla vigilia delle elezioni. 

Ma purtroppo per Macron, le similitudini tra i due eventi sono evidenti. Come gli americani, anche i francesi hanno infatti la medesima colpa, ossia non aver lavorato adeguatamente affinché lo Stato oggetto della loro azione di “salvatori” potesse camminare sulle proprie gambe. Né sul piano istituzionale né tantomeno sul piano politico, nulla è stato fatto. «Finora, il governo militare di Bamako non ha mostrato alcun segno credibile di un rapido ritorno alla democrazia», ​​ha dichiarato Katja Keul, viceministro degli Esteri tedesco.

E sarebbe stata proprio l’assenza di un apparato statale stabile ad aver compromesso l’intera operazione. A sostenere tale tesi un ex ufficiale dell’esercito francese in pensione, il quale ha spiegato: «ogni volta che abbiamo ottenuto una vittoria tattica, lo Stato maliano non ha colto l’occasione per consegnare servizi, giudici, prefetti, forze di sicurezza nelle zone del nord. Ma la natura detesta il vuoto. Quando arrivano i terroristi con la loro sharia, per le popolazioni locali a volte è meglio di niente».

(Foto di Copertina: Ian Langsdon, Pool via AP)


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Alessia Lentini

Classe 1993, laureata in giurisprudenza e appassionata di politica. Polemica per natura, scrivere mi aiuta a mettere ordine al mio "caos calmo".